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  • Passaggio generazionale in azienda: come affrontarlo al meglio

    Buongiorno, Caro lettore, oggi voglio parlare di un argomento molto sentito in tutto il paese, non è direttamente riconducibile al nostro tipo di attività ma ritengo che aprire dei sani dibattiti sia costruttivo sia per chi scrive che per chi legge. Dopo un anno e mezzo che tutte le settimane pubblico il nostro articolo, più o meno interessante che sia, mi piacerebbe sentire un minimo la tua presenza, così, ho cercato appositamente un argomento che possa stimolarti a dirmi ciò che pensi in merito. Io per ovvi motivi cercherò di rimanere super partes durante tutta la durata dell’articolo, nelle conclusioni però un piccolo pensiero personale lo inserirò e spero sia da spunto anche per te. Di cosa parleremo oggi? Oggi parleremo di un argomento che suscita molto interesse nelle varie discussioni sui social, giornali o programmi di dibattito televisivo, che non hanno nessuna rilevanza in termini di operatività, ma fanno ben comprendere il pensiero di molte persone circa il cambio generazionale, ma bando alle ciance, iniziamo! Nei paesi sviluppati il passaggio demografico si rivela principalmente attraverso due eventi fondamentali: il minor tasso di fertilità l’aumento dell’aspettativa di vita. Questi eventi di intensità rilevante si sono presentati in un tempo molto breve, pochi decenni. Hanno avuto parte determinante la ricerca scientifica, la telematica e la tecnologia contribuendo significativamente nella prevenzione e cura della salute permettendo così un notevole mantenimento e allungamento della qualità e quantità della vita. Con la parentesi pandemica abbiamo assistito ad un flusso verso le mancate assunzioni. Secondo i dati Istat relativi all’occupazione, il numero di lavoratori oltre i cinquant'anni In Italia è salito dello 0,33%. La fascia dei lavoratori definiti maturi, “olders wolker” o senior, richiede una particolare attenzione in quanto spesso sottovalutata e non coinvolta nei progetti aziendali ma anzi paragonata a “rami secchi da potare”. È indiscutibile il fatto che sempre più nell’ambito lavorativo sono presenti un folto numero di lavoratori maturi vicini, ma non sufficientemente, all’età pensionabile anche perché periodicamente cambiano norme e leggi istituzionali riguardanti parametri per la fuoriuscita dall’ambito lavorativo. Gli “olders worker”: la generazione X (nati tra il 1960 e il 1979) e i Baby Boomer (nati tra il 1943 e il 1960), questi ultimi due gruppi possono appartenere appunto agli ”olders worker“. Eurostat nella Labour Force Survery definisce “olders worker” gli occupati che appartengono alla classe di età tra i 55 e i 64 anni che corrisponde anche sul piano statistico alla definizione di lavoratore anziano. Forse la traduzione più corretta dovrebbe essere: lavoratore/trice “più anziano” in confronto agli altri lavoratori anche perché questa categoria è stata assunta nell’ambito della Strategia europea per l’occupazione come fascia di età eletta a target per il raggiungimento di specifici livelli di occupazione negli Stati membri. Gli “olders worker” sono coloro i quali possiedono come bagaglio qualitativo l’esperienza appresa in un ampio arco di tempo. L’azienda dovrebbe valorizzare e utilizzare come riferimento tali lavoratori non permettendo che vengano perse od archiviate queste competenze, ma piuttosto cercare una via per tramandare le informazioni e le conoscenze. Sarebbe così possibile determinare una sommazione esperienziale con il nuovo generando un passaggio che crea arricchimento delle competenze e che accompagna, segue e direziona la metamorfosi generazionale ed offre una crescita potenzialmente esponenziale. È proprio per lo sviluppo della disciplina dell'Age Management, coadiuvata dall’attività di ricerca e dalle linee guida europee, che nascono le priorità che le aziende e le istituzioni devono considerare per armonizzare ed utilizzare nel modo migliore questa importante fascia di lavoratori. Inoltre, è questa materia che si occupa di mettere in pratica, attraverso strategie teorico-pratiche, il recupero di questa forza lavoro. Age management: di cosa si tratta? L’Age Management è infatti una disciplina innovativa in via di maturazione, documentata ancora da poche pubblicazioni e richiamata in sporadici eventi di natura variegata ma pur sempre attinenti al mondo del lavoro. Tale disciplina matura intersecandosi alle più diverse branche come, per esempio, la medicina del lavoro, la psicologia del lavoro e la gerontologia sociale (studio degli aspetti sociali, psicologici, cognitivi e biologici dell'invecchiamento). Sebbene vi siano diversi testi e vari lavori scientifici su tale argomento secondo alcuni autori la materia non è stata ancora sufficientemente sviluppata: probabilmente perché essa rappresenta ancora, in particolare in Italia, una disciplina giovane, trattata soprattutto in ambito congressuale piuttosto che pratico, anche con un pizzico di invidia e pregiudizio dovuti alla diffusa cultura del nonnismo. Il tema dell’invecchiamento attivo nel panorama italiano ed europeo fornisce alle imprese strumenti teorico-pratici per una maggiore funzionalità ed una migliore efficienza ed efficacia gestionale età-correlate. È chiaro che la diversità di età evidenzia differenze significative per quel che riguarda le capacità, le conoscenze, le motivazioni e le attitudini legate al lavoro. Tutto ciò è da attribuire ai processi biologici età-correlati ma è stato anche osservato che sono il risultato delle percezioni e delle convinzioni che i lavoratori sviluppano su di sé e sugli altri contestualmente alle relazioni socioeconomiche ed al proprio vissuto organizzativo. Il contesto socioeconomico promuove la necessità di richiamare efficaci politiche di Age Management a tutti i livelli: locale, nazionale e sovra-nazionale. Tutto ciò è stato riportato in documenti ufficiali europei già da una trentina d’anni e si è manifestato con maggiore evidenza soprattutto nei paesi del Nord-Europa. Inoltre, è necessario non tralasciare i fattori interni alle organizzazioni nel creare contesti lavorativi in modo da valorizzare le risorse e le necessità degli individui di tutte le età. Sono sempre più numerose le organizzazioni che si accingono ad affrontare il problema del crescente invecchiamento della propria forza lavoro e del mancato allineamento delle competenze dei lavoratori più anziani rispetto alle richieste di innovazione verso cui i mercati muovono. Proprio per il mancato allineamento si costituisce un divario di competitività per le organizzazioni, che sono chiamate a risolvere il problema spingendo il personale più anziano verso un ritiro anticipato e inserendo figure più giovani in organico. Questa prassi è però risultata essere poco idonea a risolvere il problema nella sua complessità, portando ad una duplice conseguenza. In primo luogo, in termini di costi, se da un lato le aziende traggono beneficio dalle più incentivanti forme contrattuali all’interno delle quali il personale più giovane può essere inquadrato, dall’altro risentono dell’aumento di spese sanitarie, dell'assenteismo e della diminuzione della produttività dovuta ad una cattiva gestione delle risorse più esperte presenti nell'impresa. In secondo luogo, in termini di competenze, in quanto quelle maturate tramite l’esperienza dal personale più anziano sono difficilmente trasferibili nei più giovani tramite processi formativi standardizzati. Queste soluzioni mostrano problematiche che creano divario di competitività nelle organizzazioni prese in esame e, sebbene possano realmente risultare economicamente convenienti nel breve periodo, non riescono a originare valore per l’azienda nel medio e nel lungo periodo. L’impresa sarà costretta ad affrontare le stesse dinamiche passivamente, continuando ad avere il medesimo problema che diventa un ostacolo al suo sviluppo. Agire con ottica sistemica consente di incrementare la competitività dell’organizzazione grazie ad una attenta economia dei costi, un perfezionamento delle pratiche di lavoro, un accrescimento della qualità dei servizi e della produttività, oltre che l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e delle competenze presenti in azienda. Per fare tutto ciò l'impresa deve tenere conto di un’accurata analisi delle proprie risorse e della propria situazione e, solo sulla base di essa, può quindi progettare interventi costruiti ad hoc. Questo significa agire con interventi integrati, sistematici e ampliamento nei processi di formazione, di sviluppo delle competenze, di tutela della salute e del benessere del personale, sia in fase di reclutamento, sia in fase di sviluppo di carriera, sia in fase di pensionamento. Tutto questo può migliorare la comunicazione tra classi generazionali presenti in azienda e permettere ad esse uno sviluppo reciproco che sia motivato da una forte Direzione, dai giusti processi comunicativi interni e da un sistema di monitoraggio costante e di valutazione dei risultati. Riguardo ai sistemi di comunicazione, se con l’avanzamento della tecnologia e della telematica da un lato il rapporto si fa più “freddo” e l’organizzazione recupera in velocità ed immediatezza dall'altro non dovrebbe venir meno, almeno si spera, il classico trasporto emotivo tipico dell’essere umano. La passione è il motore che ci dà la forza di affrontare le giornate lavorative, è ciò che ci fa amare il nostro mestiere sia nei momenti di gioia e successo, sia nei momenti più bui e tristi. La stessa, che ci tiene o ci ha tenuto ore e ore in più davanti alla nostra postazione per terminare un lavoro importante, questo è ciò che i giovani si aspettano dai lavoratori più vecchi che gli insegnino ad appassionarsi di un mestiere, condividere gioie e dolori. Ovviamente il tramandare questi valori passa anche attraverso la praticità, le esperienze condivise i consigli ma l’ingrediente segreto, se così possiamo definirlo, per la riuscita del’Age Management è uno ed uno solo, ovvero, l’ascolto. La predisposizione da parte di chi ascolta fa un enorme differenza, la fame di apprensione, carpire il più possibile, ovviamente parlo di entrambe le figure, lavoratore giovane o senior che sia fa poca differenza, entrambe hanno da imparare reciprocamente l’uno dall’altro, solo così si può ottenere una collaborazione proficua. Forse, in un domani non così lontano, il lavoro potrebbe essere inteso come un qualcosa di realmente utile al bene sociale e culturale che concretamente porti al miglioramento della vita. Spero come sempre tu abbia trovato l’articolo interessante, non dimenticarti di scriverci la tua nella sezione commenti qui sotto. Alla prossima!

  • Gestione del rischio caldo: le linee guida

    Buongiorno, Caro lettore, colgo l’occasione di questo caldo torrido che sta caratterizzando le nostre giornate estive per affrontare il tema del lavoro in situazioni di temperature estremamente sopra lo zero termico. secondo recenti stime, circa il 30% della popolazione mondiale è attualmente esposta a condizioni di caldo particolarmente critiche per la salute per almeno 20 giorni all’anno e tale percentuale è destinata ad aumentare nei prossimi anni anche se le emissioni di gas serra tenderanno a ridursi. I lavoratori, in particolare quelli che trascorrono la maggior parte delle loro attività all’aperto, settore agricolo e delle costruzioni in primis, sono tra i soggetti più esposti agli effetti del caldo e in generale a tutti i fenomeni atmosferici. Il progetto dal quale abbiamo deciso di prendere alcune delle informazioni riportate si prefigge come obiettivo generale quello di approfondire, soprattutto attraverso la banca dati degli infortuni dell’INAIL, le conoscenze sull’effetto delle condizioni di stress termico ambientale (in particolare del caldo) sui lavoratori, con un’attenzione specifica alla stima dei costi sociali degli infortuni sul lavoro, e di conseguenza le linee guida per prevenire questo tipo di eventi. Cosa e quali sono le patologie da calore? Sono condizioni cliniche correlate all'esposizione a elevate temperature ambientali e a ondate di calore e comprendono: 1. Crampi da calore. Sono dolori muscolari causati dalla perdita di sali e liquidi corporei durante la sudorazione. Cosa fare: I lavoratori con crampi da calore dovrebbero interrompere l’attività e reintegrare i sali minerali persi consumando integratori salini ed eventualmente essere reidratati con una soluzione fisiologica per via orale o endovenosa. Se dopo un’ora di riposo il dolore non passa, contattare il medico competente. 2. Dermatite da sudore. È il problema più comune negli ambienti di lavoro caldi. È causata dalla macerazione cutanea indotta dalla eccessiva presenza di sudore e si presenta sotto forma di piccoli brufoli o vescicole. Cosa fare: Il miglior trattamento consiste nello spostarsi in un ambiente di lavoro più fresco e meno umido. L'area dell'eruzione cutanea deve essere mantenuta asciutta. Eventualmente può essere applicato del talco sull’area colpita per diminuire il fastidio. 3. Squilibri idrominerali. Conseguenti a profuse perdite idriche, in genere dovute a sudorazione e a iperventilazione, in assenza di adeguato reintegro di acqua. Successivamente si instaura un deficit sodico dovuto ad inadeguato ripristino del sodio perso con il sudore. Cosa fare: Stimolare subito il lavoratore a bere in abbondanza. In caso di forte sudorazione, reintrodurre insieme ai liquidi anche i sali minerali persi con uno snack e/o integratori. Se i sintomi (cali di pressione, sonnolenza, occhi ipotonici, palpitazioni, irritabilità) non migliorano contattare il medico competente e in caso di sintomi gravi allertare il 118. 4. Sincope dovuta a calore. Consegue ad un’eccessiva vasodilatazione, con stasi venosa periferica, ipotensione e insufficiente flusso sanguigno cerebrale, e si manifesta con una perdita di coscienza preceduta da pallore, stordimento e vertigini. Può esserci ipertermia fino a 39°C, ma senza abolizione della sudorazione né agitazione motoria. 5. Esaurimento o stress da calore. È caratterizzato da un esaurimento della capacità di adattamento (del cuore e del sistema termoregolatore), specie in soggetti non acclimatati sottoposti a sforzi fisici intensi. Cosa fare: Far spostare il lavoratore in un luogo fresco e, se non è presente nausea, incoraggiarlo a bere acqua fresca con sorsi brevi ma frequenti, ad alleggerire l’abbigliamento e a raffreddare con acqua fredda testa, collo, viso e arti. I lavoratori con segni o sintomi di esaurimento da calore dovrebbero essere portati all’osservazione del medico o al pronto soccorso per la valutazione e il trattamento. Se i sintomi (temperatura elevata, malessere, mal di testa, nausea) peggiorano, deve essere allertato il 118. È importante che qualcuno rimanga con il lavoratore fino all'arrivo dei soccorsi. 6. Colpo di calore. Si verifica se lo stress da calore non è trattato tempestivamente, quando il centro di termoregolazione dell’organismo è gravemente compromesso dall’esposizione al caldo e la temperatura corporea sale a livelli critici (superiori a 40°C). Si tratta di un'emergenza medica che può provocare danni agli organi interni e nei casi più gravi la morte. Cosa fare: Se un lavoratore mostra i segni di un possibile colpo di calore (iperventilazione, delirio, shock, blocco della sudorazione, è necessario chiamare immediatamente il 118. Fino all'arrivo dei soccorsi è importante spostare il lavoratore in un'area fresca e ombreggiata e rimuovere quanti più indumenti possibile, bagnare il lavoratore con acqua fresca, o applicare asciugamani imbevuti d’acqua fresca su testa, collo, viso e arti e far circolare l'aria per accelerare il raffreddamento. Quali sono i fattori che contribuiscono alle patologie da calore? Ecco qui sotto i fattori maggiormente influenti: Alta temperatura dell’aria e alti tassi di umidità Basso consumo di liquidi Esposizione diretta al sole (senza ombra) Movimento d'aria limitato (assenza di aree ventilate) Attività fisica intensa Alimentazione non adeguata Insufficiente periodo di acclimatamento Uso di indumenti pesanti e dispositivi di protezione Condizioni di suscettibilità individuale Tra questi fattori vi sono anche le patologie croniche che aumentano il rischio di effetti avversi del caldo sia nella popolazione generale che nei lavoratori. E visto e considerato la vastità di persone affette da questi disturbi è bene trattarle come un vero e proprio argomento, non basta citarle come nei casi appena citati. Tali patologie croniche sono: 1. Malattie della tiroide e obesità: Gli ormoni tiroidei inducono liberazione di energia termica dalle cellule. In più, nei soggetti obesi aumenta lo sforzo cardiaco necessario per lavorare in ambienti caldi. Cosa fare: Tenere presente che l’organismo ha bisogno di adattarsi al caldo in modo graduale, rinfrescarsi ed idratarsi con bevande fresche, limitando il consumo di caffè ed alcolici che provocano disidratazione. Fare attenzione in caso di sintomi come sudorazione intensa, cefalea, nausea e crampi. 2. Asma e bronchite cronica: Il caldo può provocare broncocostrizione e attacchi di asma specialmente in presenza di alti tassi di umidità Cosa fare: Portare con sé la terapia da effettuare in caso di broncocostrizione 3. Diabete: Ostacola la dispersione di calore a seguito della ridotta vasodilatazione al caldo per una globale alterazione della reattività del microcircolo, condizione esacerbata da una eventuale neuropatiaperiferica, che riduce e rallenta l’attivazione dei meccanismi termoregolatori. In caso di sforzi fisici intensi si possono verificare abbassamenti della glicemia. 4. Disturbi psichici e malattie neurologiche: Possono causare un’alterata percezione dei rischi associati al caldo e la conseguente assunzione di comportamenti inadeguati. Cosa fare: Idratarsi adeguatamente e assumere regolarmente le terapie. 5. Patologie Cardiovascolari: Possono rendere difficile il potenziamento del lavoro cardiaco necessario da una parte per disperdere il calore attraverso un aumento del flusso verso i distretti periferici e dall’altra per incrementare il flusso sanguigno verso i distretti muscolari interessati dallo sforzo, soprattutto per mansioni lavorative ad elevato impegno metabolico. Cosa fare: Attenzione alla corretta idratazione ed al reintegro, oltre che dei liquidi persi, anche dei sali minerali, specialmente in presenza di fattori di rischio concomitanti (es. infezioni gastrointestinali) che possono favorire l’insorgenza di aritmie. Attenzione ad alzarsi bruscamente per evitare sbalzi improvvisi di pressione. Monitorare più spesso la pressione arteriosa durante l’estate, e richiedere il parere del medico curante per eventuali aggiustamenti della terapia. Se si soffre di ipertensione ridurre il consumo di sale. 6. Malattie renali: Per i soggetti con insufficienza renale o dializzati è riportata in letteratura una frequente associazione con ipertensione arteriosa e altre patologie cardiovascolari, con aumento del rischio di sbalzi di pressione associati al caldo. La disidratazione può peggiorare l’insufficienza renale. Cosa fare: Monitorare più spesso la pressione arteriosa ed idratarsi adeguatamente e seguire una sana alimentazione preferendo alimenti ricchi di fibre e poveri di potassio. Come prevenire la disidratazione e perché é importante? La disidratazione predispone al rischio di infortuni sul lavoro e di insorgenza delle patologie da calore. Questa condizione se diventa cronica aumenta il rischio di patologie, come quelle renali, inoltre e molto importante sapere che le prestazioni lavorative peggiorano in condizioni di disidratazione e che di conseguenza anche la produttività ne risente. Come possiamo quindi prevenire la disidratazione a casa e sul luogo di lavoro? A casa Tenere presente che l’organismo ha bisogno di adattarsi al caldo in modo graduale: un periodo adeguato di acclimatamento può essere di 7-14 giorni con un aumento graduale dei tempi di esposizione al caldo. Prima del turno di lavoro rinfrescarsi e idratarsi con bevande fresche e limitando il consumo di caffè; seguire una sana alimentazione nutrendosi a sufficienza ed evitare bevande alcoliche. È importante bere all'inizio della giornata, prima di cominciare a lavorare Secondo recenti ricerche circa 2 lavoratori su 3 arrivano al lavoro già in stato di disidratazione. Essere idratati prima di iniziare a lavorare rende più facile il mantenimento dell’idratazione durante la giornata. Prima si inizia a bere, meno si mette sotto sforzo l’organismo. Se si inizia a lavorare in condizioni di disidratazione, l’acqua bevuta durante la giornata, anche se consumata in quantità adeguata, potrebbe non essere sufficiente a soddisfare il fabbisogno idrico dell’organismo. È importante bere all'inizio della giornata, prima di cominciare a lavorare Normalmente i sali minerali persi con la sudorazione sono reintegrati in occasione dei pasti, pertanto per mantenere l’equilibrio idro-elettrolitico è importante consumare i pasti a intervalli regolari. I lavoratori in regime di auto-restrizione idrica per motivi religiosi (coloro che seguono il Ramadan) devono bere almeno 2litri d’acqua dopo il tramonto e 2 litri d’acqua prima dell’alba. L’idratazione è cumulativa e quindi questo accorgimento è fondamentale. Importante è inoltre che evitino di saltare il pasto della mattina prima dell'inizio del digiuno. Le bevande energetiche sono da evitare: alcune contengono molta più caffeina rispetto alla classica tazzina da caffè; la caffeina in tali quantità può influenzare negativamente lo stato di idratazione. Inoltre, molte bevande energetiche contengono elevate quantità di zuccheri e aggiungono calorie non necessarie alla dieta. Evitare il consumo di bevande alcoliche ai pasti perché l’alcol favorisce la vasodilatazione e aumenta il rischio di patologie da calore. Prevenzione delle patologie da calore: ecco 10 azioni per il datore di lavoro È compito e cura del datore di lavoro, tramite il RSPP, l’individuazione delle procedure specifiche per l’attuazione delle misure qui sotto descritte, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, e a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri, secondo quanto prescritto dal D.lgs. 81/08. 1. Designare una persona che sovrintenda al piano di sorveglianza per la prevenzione degli effetti dello stress da caldo sulla salute e sulla sicurezza e l'adeguata risposta: Individuare un responsabile, presente sul luogo dove si svolge l’attività, che potrà anche coincidere con il preposto, per la sorveglianza delle condizioni meteoclimatiche, formato sull’appropriato uso dell’indice di calore e sugli indicatori di rischio di stress termico, preposto all’attuazione delle misure di tutela specifiche in caso di insorgenza delle condizioni di stress termico 2. Identificazione dei pericoli e valutazione del rischio: L'identificazione dei pericoli implica il riconoscimento dei rischi legati al caldo e delle patologie da calore, dovute agli effetti di alte temperature, elevata umidità, dell’esposizione al sole o ad altre fonti di calore, alle esigenze lavorative, agli indumenti di lavoro, ai dispositivi di protezione individuale (DPI) e a fattori di rischio personali. 3. Formazione: La formazione ha l’obiettivo di aumentare la consapevolezza dei lavoratori sugli effetti sulla salute dello stress da caldo e sulle misure di prevenzione e protezione da adottare. Deve comprendere raccomandazioni sugli abiti preferibilmente da indossare, sull’importanza di mantenere un ottimo stato di idratazione e un’alimentazione equilibrata, sui fattori di rischio individuali e la gestione dei sintomi delle patologie da calore - come prevenirne l’insorgenza e come e quando riconoscere i sintomi. È importante che la formazione dei lavoratori venga fatta in una lingua che i lavoratori comprendano. 4. Strategie di prevenzione e protezioni individuali per i lavoratori (idratazione e abbigliamento): Rendere disponibile acqua potabile da bere e acqua per rinfrescarsi. Acqua fresca potabile deve essere sempre disponibile e facilmente accessibile. In situazioni di esposizione al caldo, i lavoratori dovrebbero essere incoraggiati a bere circa un litro d'acqua ogni ora, ovvero circa un bicchiere d’acqua ogni quindici minuti. Consigliare ai lavoratori di indossare, se possibile, abiti leggeri in fibre naturali, traspiranti e di colore chiaro e che ricoprano buona parte del corpo e se possibile un copricapo con visiera o a tesa larga e occhiali da sole con filtri UV. Consigliare ai lavoratori di applicare una crema solare ad alta protezione (SPF 50+) nelle parti del corpo che rimangono scoperte. Possono essere forniti indumenti refrigeranti o gilet ventilati ai lavoratori più esposti che svolgono lavori pesanti. 5. Riorganizzazione dei turni di lavoro: Riprogrammazione delle attività che non sono prioritarie e che sono da condursi all'aperto in giorni con condizioni meteoclimatiche più favorevoli e la pianificazione delle attività che richiedono un maggiore sforzo fisico durante i momenti più freschi della giornata. 6. Rendere disponibili e accessibili aree ombreggiate per le pause: Per quanto possibile assicurare la disponibilità di aree completamente ombreggiate o climatizzate per le pause e il raffreddamento. Pianificare pause brevi ma frequenti in luoghi ombreggiati non causa perdite di produttività, ma anzi, ci sono evidenze che in assenza di pause pianificate il ritmo di lavoro si rallenta e aumenta il rischio di errore umano. 7. Favorire l'acclimatazione dei lavoratori: L'acclimatazione consiste in una serie di modificazioni fisiologiche che consentono all’organismo di tollerare la conduzione di mansioni lavorative in condizioni di esposizione a temperature elevate. In linea con quanto raccomandato dagli organismi internazionali per la protezione della salute occupazionale si consiglia che, in caso di ondata di calore i lavoratori neo-assunti e quelli che riprendono il lavoro dopo un'assenza prolungata inizino con il 20% del carico di lavoro il primo giorno e aumentino gradualmente il carico ogni giorno successivo; i lavoratori esperti dovrebbero iniziare il primo giorno al 50% del carico normale, e anch’essi aumentare gradualmente il carico nei giorni successivi. 8. Controllo reciproco: Promuovere il reciproco controllo dei lavoratori soprattutto in momenti della giornata caratterizzati da temperature particolarmente elevate o, in generale, durante le ondate di calore 9. Pianificazione e risposta alle emergenze: Prima dell’esposizione dei lavoratori al calore (all’aperto o al chiuso) è importante sviluppare con la collaborazione del medico competente e del responsabile della sicurezza un piano di sorveglianza per il monitoraggio dei segni e dei sintomi delle patologie da calore e di risposta alle emergenze, per favorire precocemente la diagnosi e il trattamento. Tutti i lavoratori devono essere messi a conoscenza del piano e devono essere in grado di riconoscere i sintomi legati allo stress termico. I lavoratori che presentino l'insorgenza di patologie da calore devono cessare immediatamente di svolgere le attività che stavano svolgendo, rinfrescarsi bagnandosi con acqua fresca e bere acqua potabile. Nel trattamento di una grave malattia da calore, il raffreddamento è l’azione prioritaria da intraprendersi immediatamente, ed è indispensabile prevedere che venga sempre messa in atto all’insorgenza dei sintomi. 10. Misure specifiche per i luoghi di lavoro in ambienti chiusi: I luoghi di lavoro in ambienti chiusi possono essere raffreddati con l’utilizzo del condizionatore o, in alternativa, se la temperatura dell’aria è inferiore alla temperatura media corporea (circa 35°C), del ventilatore. Se sono presenti macchinari/superfici calde si possono posizionare schermi protettivi fra il lavoratore e le sorgenti radianti eventualmente presenti (semplici superfici riflettenti o riflettenti ed assorbenti) e si può ridurre, laddove possibile, l’emissività della superficie calda della sorgente radiante rivestendola con del materiale isolante. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • ISO 20121 la gestione degli eventi sostenibili

    Buongiorno, Caro lettore, come penso tu ben sappia da alcuni decenni a questa parte attraverso l'organizzazione di eventi, le aziende presentano sé stesse e la propria competenza al pubblico di riferimento. Siano gli eventi di carattere istituzionale o tecnico-divulgativo, essi rispecchiano la vision dell'Azienda e possono contribuire a definirne l'immagine verso i portatori di interesse. L'organizzazione di un evento implica un forte impegno in termini di costi, risorse e tempo e, come tutte le attività aziendali, anche questa deve garantire un approccio che consideri debitamente gli aspetti economici e logistici, ma anche il contesto sociale e ambientale in cui l'evento si svolge, nell'ottica della generale politica per la sostenibilità dell'azienda. ISO 20121: cosa è? La ISO 20121 è una norma internazionale che definisce i requisiti di un sistema di gestione della sostenibilità degli eventi. Questo standard nasce dal nuovo Project Committee ISO/PC 250 "Sustainability in event management" che ha coinvolto più di 30 paesi in qualità di membri partecipanti o membri osservatori. La norma, oltre a basarsi sui principi consolidati dei sistemi di gestione, ingloba alcuni elementi caratteristici della ISO 26000. Non è quindi né una check list, né una guida, né una specifica prestazionale per gli eventi sostenibili. Per evento la norma intende una “assemblea programmata nel tempo e nello spazio dove viene creata un’esperienza e/o veicolato un messaggio” (traduzione di CSQA), pertanto si rivolge a varie tipologie di eventi, dalla manifestazione sportiva al webinar. Un aspetto particolare della ISO 20121 è l’integrazione del modello PDCA (Plan, Do, Check, Act) tipico dei sistemi di gestione con il ciclo di vita degli eventi (dall’ideazione alla chiusura e post-chiusura di un evento). A chi si rivolge la norma ISO 20121? La norma è rivolta non solo alle aziende che si occupano di organizzazione di eventi come core business (Fiere, Hotel, Centri Congressi, Centri Sportivi, Teatri, Cinema, Catering, Assessorati turismo/ambiente Enti locali, Case discografiche, Agenzie comunicazione...), ma anche a: tutte le organizzazioni che intendono implementare o migliorare la propria capacità di organizzare i propri eventi aziendali in modo sostenibile. fornitori di servizi per il comparto (es. catering, hostess…) associazioni di settore. Gli elementi distintivi della norma Definizione dei principi di sviluppo sostenibile e della politica. Per la definizione di tali principi, la norma suggerisce di fare riferimento ai seguenti: gestione etica delle risorse (stewardship), inclusività, integrità, trasparenza. Oltre a questi, naturalmente, l’organizzazione ne può implementare altri, magari facendo riferimento alla norma ISO 26001. Valutazione degli impatti significativi dell’evento nei tre ambiti della sostenibilità: sociale, ambientale ed economica. Tale valutazione deve prendere in considerazione i riscontri delle parti interessate. Definizione di obiettivi e traguardi mirati per ciascuno degli aspetti significativi e prioritari individuati con rilascio chiaro delle azioni, delle tempistiche, delle risorse necessarie per il loro conseguimento e della modalità di valutazione dei risultati. Definizione delle modalità di dialogo con i diversi stakeholder attraverso un piano di comunicazione esaustivo per l’intero ciclo di vita dell’evento. Organizzazione della supply chain in ottica sostenibile con inserimento di parametri coerenti con i principi e la politica adottata. Monitoraggio della performance, sempre con riferimento ai principi e alla politica adottata dall’organizzazione e avendo cura di identificare e gestire correttamente gli insegnamenti di eventi pregressi in modo da sfruttarti utilmente per la progettazione di quelli successivi. La norma si sofferma sull’analisi delle citate tre dimensioni-chiave della sostenibilità, chiarendo come l’impresa, nella pianificazione e nello sviluppo di un evento sostenibile, debba prestare attenzione all’adozione di processi e azioni orientati all’utilizzo efficiente delle risorse, curandosi di ridurre al minimo gli sprechi. Tali iniziative possono includere anche il noleggio dei beni necessari per l’evento come sedie, tensostrutture, palchi, stand, eccetera, ricorrendo a strutture mobili o costruendone di nuove da destinare alla comunità locale quale eredità dell’evento stesso. Che cosa qualifica un evento come sostenibile? Prendendo come punto di partenza il contesto in cui si svolge l'evento, l'organizzazione deve identificare gli aspetti ambientali, sociali ed economici che possono rendere l'evento sostenibile nel rispetto dei Sustainable Development Goals promossi dall’ONU quali: Location Accessibilità Soggiorni Approvvigionamento di prodotti e servizi Scelta dei materiali Bevande e alimentazione Trasporti e logistica Acqua e igiene Rumore Rifiuti Rispetto degli standard lavorativi Salute e sicurezza sul lavoro Pratiche di sicurezza Prevenzione nell'uso di agenti chimici nocivi Garanzie sociali Consumo di energia Riduzione delle emissioni Tutela della biodiversità e dell'ambiente Utilizzo delle risorse Comportamento non competitivo Lotta alla corruzione Sviluppo del personale e formazione Prevenzione utilizzo di droghe e doping Rispetto delle comunità locali Pratiche di consumo Discriminazione e gruppi vulnerabili Benessere degli animali coinvolti Performance economiche Presenza sul mercato Impatti economici indiretti ISO 20121: a quali eventi si applica? Nata sulla base della norma inglese BS 8901, la ISO 20121 costituisce un modello di riferimento flessibile per le organizzazioni che vogliono dimostrare il proprio impegno verso la sostenibilità nella progettazione e realizzazione degli eventi. La norma può essere infatti applicata a un singolo evento, a una serie di eventi, alle organizzazioni specializzate nella realizzazione di eventi o, ancora, ai fornitori di servizi quali società di catering di allestimenti e anche alle location: quartieri fieristici, centri congressi, alberghi etc. Furono proprio i Giochi Olimpici di Londra del 2012, anno di emissione della norma, il primo grande evento certificato secondo la ISO 20121, su input del Comitato Organizzatore (LOGOC) di diversi anni precedente. In Italia, il primo grande evento sostenibile certificato secondo la ISO 20121 è stato invece l’Expo di Milano del 2016. I Giochi Olimpici e Paralimpici invernali di Cortina 2026 si terranno con riferimento al medesimo standard, prima edizione interamente concepita, pianificata e conclusa – ovvero smantellata – seguendo le raccomandazioni dell’Agenda 2020, la riforma New Norm del CIO e gli obiettivi stabiliti dall’Agenda Globale 2030 per lo Sviluppo sostenibile. Quali sono i benefici della ISO 20121? Gli eventi rappresentano un’opportunità importante per coinvolgere il pubblico sensibilizzandolo e responsabilizzandolo rispetto alle tematiche di sostenibilità. Gli eventi sostenibili hanno lo scopo di trasferire la cultura della sostenibilità attraverso azioni concrete capaci di richiamare l’attenzione alla responsabilità nei confronti della comunità locale e alla tutela dell’ambiente. L’adozione della ISO 20121 comporta una serie di benefici per le imprese, sia diretti che indiretti: risparmio dei costi conseguenti alla riduzione dei consumi energetici, alla diminuzione dei rifiuti o all’acquisto di prodotti locali vantaggi reputazionali derivanti dalla visibilità che un evento etico produce, dimostrando l’impegno dell’azienda sui temi della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale promozione di tecniche e tecnologie innovative che aiutano a utilizzare le risorse in maniera più efficiente diffusione di una maggiore consapevolezza fra partecipanti, dipendenti, fornitori e nella comunità locale riguardo i benefici di prodotti e servizi eco-compatibili benefici sociali per il territorio attraverso la creazione di opportunità di impiego e di business per i fornitori locali sviluppo di un approccio sistematico efficiente ed efficace ai principi di sviluppo sostenibile implementazione di un sistema di monitoraggio e registrazione delle performance di sostenibilità caratterizzazione della catena di fornitura in senso più sostenibile aumento della motivazione e della fidelizzazione delle risorse umane impiegate e attrazione dei migliori talenti Spero che questo nuovo articolo ti sia piaciuto. Sono consapevole che molti dei nostri lettori non hanno la struttura per potersi adeguare a questa ISO, ma in un periodo come questo, in cui tutto sta tornando alla normalità con concerti e grandi eventi mondiali, sapere che in un futuro non molto prossimo i grandi eventi possano avere impatto zero sull’ambiente è a mio avviso un grande traguardo. Anche un piccolo gesto può fare la differenza. Alla prossima!

  • Spazi confinati: quello che devi sapere per lavorare in sicurezza

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi prendo spunto dal caso studio proposto la settimana scorsa (recuperalo qua), tale articolo trattava la perdita di coscienza di un lavoratore che stava operando all’interno di uno spazio confinato, così ho pensato bene di cogliere la palla al balzo e parlarti di spazi confinati, che sono un argomento assai delicato. Come hai potuto constatare tu stesso eseguire qualsiasi tipo di operazione, anche la semplice pulizia, all’interno di questo tipo di luogo è potenzialmente molto pericoloso per la salute e la sicurezza del lavoratore, ma per comprendere al meglio tutte le criticità relative a questi luoghi di lavoro e bene addentrarsi un pochino nella normativa, ammesso che ne esista una. La definizione di spazio confinato esiste? Purtroppo, la vigente legislazione italiana non ci ha fornito una definizione di spazio confinato. Nemmeno il DPR 177/2011 ha fornito una definizione che caratterizzi gli spazi confinati. In assenza di una definizione che consenta di identificare gli spazi confinati, la prima difficoltà per una corretta applicazione della normativa sulla prevenzione degli infortuni nei lavori in ambienti confinati è verificare se si ricade nel campo di applicazione di tale legislazione, oppure no. Per risolvere tale dubbio, è possibile applicare delle definizioni di spazio confinato rintracciabili nella normativa tecnica internazionale (si veda ad esempio lo standard OSHA 1910.146, OHSA 1926.1200 e il documento NIOSH 80-106). In ogni caso la definizione di spazio confinato riportata nella normativa internazionale spesso non fa riferimento ad aspetti quantitativi, ma qualitativi, richiedendo di rispondere alle seguenti domande: lo spazio confinato possiede o potrebbe possedere un’atmosfera pericolosa? l'ambiente confinato contiene materiali o parti interne che possano intrappolare o seppellire gli occupanti una volta entrati? l'ambiente ha una configurazione tale da costituire esso stesso un pericolo di intrappolamento o di asfissia per chi vi entra? lo spazio confinato è caratterizzato da un qualsiasi altro pericolo per la salute o la sicurezza? Rimane pertanto complesso e spesso demandato all'esperienza del valutatore (che utilizzerà criteri mutuati dalla normativa nazionale e internazionale), identificare uno spazio confinato. Alla luce di quanto sopra esposto, una possibile definizione di spazio confinato o ambiente con sospetto inquinamento potrebbe essere la seguente: Con il termine spazio confinato si definisce un luogo o ambiente che abbia le seguenti tre caratteristiche: un ambiente/luogo totalmente o parzialmente chiuso, caratterizzato da aperture di limitate dimensioni o con difficoltà di accesso/recupero, non progettato/costruito per essere occupato in permanenza da persone, ma che occasionalmente può essere occupato per lo svolgimento di attività lavorative, con accesso completo al suo interno da parte dell'operatore, nel quale possa verificarsi al suo interno un evento accidentale importante, che possa portare a un infortunio grave o mortale a causa della sua configurazione e/o della presenza di agenti chimici, fisici e biologici pericolosi caratteristici dell'ambiente stesso e/o correlati all’attività che vi si va a svolgere e in particolare che l’atmosfera possa presentare pericoli legati a una sotto o sovra ossigenazione o alla presenza di gas o vapori tossici o infiammabili. Cosa vuol dire lavorare in spazi confinati? Lavorare in uno spazio confinato significa svolgere attività lavorative all'interno di uno spazio circoscritto, caratterizzato da accessi e uscite difficoltosi o limitati, da una ventilazione naturale sfavorevole, nel quale, in presenza di agenti pericolosi (ad. es. gas, vapori, polveri, atmosfere esplosive, agenti biologici, ecc.) o in carenza di ossigeno o per difficoltà di evacuazione o di comunicazione con l'esterno, può verificarsi un infortunio grave o mortale. Alcuni ambienti confinati sono facilmente identificabili come tali, in quanto la limitazione legata alle aperture di accesso e alla ventilazione sono ben evidenti e/o la presenza di agenti chimici pericolosi è nota. Tra gli spazi confinati facilmente identificabili troviamo: Condutture fognarie Silos e/o cisterne installati fuori terra Stive di imbarcazioni Pozzi e tubazioni Cisterne installate su autocarri Altri ambienti, ad un primo esame superficiale, potrebbero non apparire come confinati. In particolari circostanze, legate alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa o ad influenze provenienti dall'ambiente circostante, essi possono invece configurarsi come tali e rivelarsi altrettanto o più insidiosi dei primi. Tra questi si possono annoverare: Vasche interrate e fuori terra Cavità, fosse o trincee Stive di imbarcazioni Gallerie Vi sono degli obblighi per lavorare in spazi confinati? I principali obblighi previsti dal D.P.R. n. 177/11 per i lavori svolti all'interno di uno spazio confinato sono: obbligo per le imprese e i lavoratori autonomi che effettuano lavori in ambienti confinati, in aggiunta ai già previsti obblighi del D.lgs. 81/08, di effettuare specifica informazione, formazione e aggiornamento a tutti i lavoratori compreso il datore di lavoro, qualora impegnato nei lavori; obbligo di dotazione delle attrezzature di sicurezza (ad esempio autorespiratori, sistemi di recupero e soccorso, rivelatori di gas infiammabili e/o tossici e/o di ossigeno) e DPI necessari per garantire la sicurezza nei lavori in spazi confinati; obbligo per le imprese che eseguono lavori in ambienti confinati di disporre di "personale esperto" (con almeno 3 anni di esperienza) in numero non inferiore al 30%; obbligo per il committente di informare, prima dell'accesso nello spazio confinato, tutti i lavoratori impegnati in merito a tutti i rischi presenti nell'area di lavoro, con un incontro di durata non inferiore ad un giorno; obbligo per il Datore di Lavoro Committente di individuare un proprio Rappresentante, con adeguata esperienza che vigili le attività svolte all'interno dello spazio confinato da parte dei lavoratori delle imprese in appalto. Che tipo di formazione deve fare chi lavora in spazi confinati? È previsto anche un aggiornamento? Il D.P.R. 177/11 prevede che i lavoratori siano qualificati con precisi corsi "normati", non ancora definiti dal legislatore: nell’attesa di indicazioni più precise, TQSA organizza un corso direttamente nella tua azienda dove verranno affrontati i seguenti argomenti: Definizioni e caratteristiche ed esempi di “Spazi Confinati”; D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (art. 66 – Allegato IV); D.P.R. n. 177/2011; Obblighi dei soggetti responsabili; Principali ruoli e mansioni; Documentazione e moduli obbligatori; Principali Rischi e Pericoli; Anossia, gas, fumi, vapori, liquidi, rischio incendio ed esplosione, polvere, microclima, claustrofobia, caduta dall’alto, etc. Principali ruoli e mansioni; Misure di prevenzione e protezione; Addestramento all’utilizzo dei DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALI APVR ed altri DPI di III categoria (uso, tipologia e filtri); Addestramento all’utilizzo di Rilevatori gas e atmosfere esplosive. Come detto poco fa Il D.P.R. 177/11 prevede che i lavoratori addetti alle attività in spazi confinati siano qualificati con precisi corsi di formazione; tuttavia, la norma non specifica i contenuti, la modalità e la frequenza di aggiornamento di tale formazione. Tenendo in considerazione i particolari fattori di rischio e l'alta pericolosità propri delle attività in spazi confinati TQSA ritiene opportuno che I lavoratori addetti aggiornino periodicamente la propria formazione con corsi di aggiornamento specifici. Quali sono i principali fattori di rischio? I lavoratori che si trovano ad operare all’interno di uno spazio confinato possono essere soggetti a diversi rischi, di seguito i principali: rischio di asfissia (ovvero mancanza di ossigeno) rischio di avvelenamento per inalazione o per contatto epidermico rischio di incendio ed esplosione rischio da seppellimento/annegamento rischio da scariche elettriche rischio da caduta e scivolamento rischio da luoghi conduttori ristretti rischio da contatto con parti meccaniche in movimento rischio da microclima Come valutare il rischio negli spazi confinati? La valutazione del rischio delle attività in spazi confinati è un obbligo a carico del Datore di Lavoro, sancito dal D. Lgs. 81/08. Ma, a fronte di un grave vuoto della legislazione e normativa italiana sulla definizione di precisi criteri per identificare e definire i livelli di pericolosità di uno spazio confinato vengono accorpati in un termine vago una variegata casistica di luoghi (aperti, chiusi, con rischio di caduta o meno, con rischio chimico o meno, di dimensioni rilevanti o contenute, etc.). Quale metodologia applicare? Quali criteri adottare per classificare uno spazio confinato? Come effettuare la valutazione dei rischi presenti negli spazi confinati? Lo spazio confinato non va solo identificato, ma anche "classificato". Infatti, Il documento NIOSH 80-106 individua i criteri per la classificazione di uno spazio confinato basandosi su aspetti di pericolosità quali: le caratteristiche geometriche dello spazio confinato; la percentuale di ossigeno presente nello spazio confinato; la presenza nello spazio confinato di un'atmosfera esplosiva e i livelli di esplosività della stessa; la presenza di sostanze tossiche o comunque pericolose per gli addetti ai lavori e i relativi livelli. Sulla base della classificazione dello spazio confinato, lo stesso documento NIOSH 80-106 individua le misure di sicurezza da adottare, tra le quali: i metodi per comunicare con i lavoratori operanti nello spazio confinato; i DPI per gli addetti al salvataggio; il controllo preliminare dell’atmosfera presente nello spazio confinato (con annotazione dell’esito); la formazione e l’addestramento dei lavoratori che operano nello spazio confinato; la redazione della procedura di salvataggio. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Caso studio: inalazione di solventi

    Buongiorno Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Come penso tu ben sappia se mi segui da un po’ ciclicamente propongo dei casi studio, analizziamo nel dettaglio near miss o, in casi peggiori, dei veri e propri incidenti per comprenderne gli errori che sono stati commessi e le accortezze che bisogna avere per poterli evitare. Negli altri articoli che trovi nel nostro blog, trattiamo principalmente di formazione e informazione, ma a volte è bene anche trattare temi pratici, e sicuramente scoprire cosa si cela dietro un incidente può essere altrettanto educativo e di esempio per non replicare l’errore. Ma veniamo ora all’accaduto... Il caso studio di oggi è ambientato all’interno di un'azienda di produzione macchinari industriali situata nel Milanese. L’operaio era incaricato alla pulizia del basamento di una pressa di notevoli dimensioni utilizzando del diluente nitro, che per chi non lo sapesse è un prodotto che si usa per diluire antiruggine e vernici, che ha anche un grande potere pulente e solitamente viene impiegato per eliminare residui di colla, grasso e stucco. È di fondamentale importanza sapere inoltre che i vapori prodotti da questo solvente sono 2/3 volte più pesanti dell’aria e quindi tendono a stagnare nelle zone dove vengono utilizzati. Di norma tali lavorazioni vengono svolte all’interno del reparto verniciatura, ma a causa delle notevoli dimensioni della pressa è stata fatta un’eccezione, andando a posizionarla nella fossa di collaudo. Da una prima descrizione della situazione penso si possa facilmente intuire cosa è accaduto, ma andiamo per gradi. L’addetto una volta terminato il turno di lavoro decide di dedicarsi a quest’attività secondaria, rimanendo da solo all’interno del reparto. Inizia così l’attività di grassaggio della superficie del basamento della pressa adoperando il solvente nitro con l’ausilio di una pistola a spruzzo. Pochi istanti dopo l’operaio perde i sensi e viene trovato dopo diverse ore da un collega. L’inalazione dei vapori provenienti dai solventi ha avuto un effetto acuto sul sistema nervoso centrale provocando la totale perdita dei sensi. Portato l’infortunato in ospedale fortunatamente non sono stati diagnosticati danni con postumi permanenti, ma solamente 9 giorni di infortunio. Perché è avvenuto l'infortunio? Diciamo che in questo frangente l’errore non è stato solo uno, ma un susseguirsi di scelte errate che hanno portato alla perdita dei sensi del lavoratore. Vediamo insieme quali sono: L’impossibilità di eseguire l’operazione di pulizia e sgrassaggio nel reparto verniciature, dotato di sistema di aspirazione a causa delle dimensioni del macchinario. Inoltre, l’operazione viene eseguita nella fossa di collaudo, che notoriamente è un ambiente confinato non dotato di un necessario sistema di aspirazione. Secondo quanto ricostruito in un secondo momento il lavoratore ha disperso nell’ambiente una quantità elevata di soventi presenti nella miscela, approssimativamente intorno ai 75 litri. Il lavoratore per accelerare le operazioni utilizza una pistola a spruzzo al posto di stracci imbevuti di solvente, come indicato nel DVR sotto la voce istruzioni operative per lo sgrassaggio. Inutilizzo dei DPI I solventi utilizzati hanno una densità maggiore dell’aria, pertanto si sono accumulati in concentrazioni crescenti verso il fondo della fossa. Quali sono state le criticità organizzative? Sicuramente uno dei punti cardini della sicurezza è venuto a mancare, ovvero la formazione specifica di preposti e lavoratori, che hanno portato a compiere scelte completamente errate e rischiose per il lavoratore. Una delle prime domande che mi sono posto è : ”Per quale motivo ha svolto questo lavoro senza la supervisione di nessun preposto?” Probabilmente il lavoratore svolgeva questa mansione da anni e pensava di essere consapevole, oppure la sua posizione in azienda era tale per cui era lui a prendere decisioni sul suo operato. Tutte ipotesi, l’unica certezza che abbiamo è che vi è la mancanza di una figura fondamentale come quella del preposto che vigila un’attività all’interno di uno spazio confinato. Inoltre, un errata valutazione del chimico rispetto alle modalità di lavoro adottate, nello specifico non sono state idoneamente valutate le proprietà chimico-fisiche e tossicologiche degli agenti chimici che si stavano andando ad utilizzare, il che si traduce nella mancanza di comunicazione da parte dell’RLS di quanto riportato nella scheda dei dati di sicurezza presente all’interno del DVR. Quali possono essere le azioni preventive? Visto e considerato le criticità prima citate le azioni preventive sono parecchie quindi per semplificare la cosa le affronteremo per punti: Effettuare una corretta valutazione del rischio per la salute e per la sicurezza, comprensiva dell’individuazione e dell’analisi delle proprietà pericolose degli agenti chimici presenti e dei rischi associati in aggiunta alla valutazione del contenuto della SDS (asfissia, tossicità per inalazione o contatto, incendio ed esplosione). Con particolare attenzione agli effettivi scenari di esposizione: caratteristiche fisico-chimiche e tossicologiche delle sostanze impiegate, quantitativi utilizzati, tempi di esposizione e modalità operative di utilizzo. Inoltre, ove possibile è da prediligere l’uso di sostanze meno pericolose per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Fornire ai lavoratori ed ai preposti una formazione adeguata e specifica. Implementare procedure di lavoro coerenti con quanto indicato nelle schede di dati di sicurezza e nelle schede tecniche dei prodotti utilizzati in azienda, previa valutazione completa delle informazioni. Eseguire operazioni che prevedono l’impiego di sostanze chimiche pericolose con adeguati sistemi di protezione collettiva (es. cappe aspiranti, ecc.) e con idonei DPI di protezione delle vie respiratorie (maschere con filtro adeguato), della cute e delle mucose. Esporre segnaletica di sicurezza chiara e adeguata rispetto ai rischi presenti ed alle misure protettive da utilizzare. Pianificare adeguate procedure di intervento da attuare al fine di proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori dalle conseguenze di incidenti o di emergenza derivanti dalla presenza di sostanze chimiche pericolose, prevedendo esercitazioni e la messa a disposizione di appropriati mezzi di primo soccorso e dispositivi di protezione individuale. Oggi volevo dimostrarti come la più semplice delle attività ovvero quella della pulizia può avere gravi effetti sulla salute dell’uomo se eseguita senza la giusta attenzione, sottovalutando i rischi che può comportare, figuriamoci quindi attività più complesse. Prestare attenzione a tutti i dettagli non fa di noi gente rompi scatole ma persone scrupolose che tengono alla propria salute e a quella dei nostri colleghi. Spero come sempre di essere stato esaustivo, se ti va di approfondire il rischio chimico che comunque è parte integrante dell’argomento, qui trovi un mio vecchio articolo in cui affronto la cosa in modo molto completo. Se invece le tue curiosità sono altre non ti preoccupare, contattami pure senza problemi, sarò lieto di fare una chiacchierata con te. Alla prossima!!

  • Certificare la propria attività: perchè conviene? Quali sono i vantaggi?

    Buongiorno, Caro lettore, come penso tu ben sappia il successo di un’azienda dipende dalle decisioni strategiche che prende ogni giorno. Dotarsi di sistemi di gestione della qualità in grado di ridurre la complessità aziendale e certificare i propri prodotti può, infatti, segnare in positivo il futuro di un’azienda. La più importante organizzazione responsabile per il processo di certificazione è l’ISO, l’International Organization for Standardization, che si occupa della definizione delle norme tecniche e dei requisiti da soddisfare per il rilascio delle certificazioni. Poiché si tratta di un’organizzazione internazionale, una certificazione ISO ha validità in tutti i 164 Paesi membri, garantendo così in quasi tutto il mondo l’applicazione di norme tecniche condivise. L’Italia è uno di questi Paesi membri attraverso l’Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI). Ma veniamo ora al sodo... La differenza tra certificazioni di sistema e di prodotto Prima di addentrarci nella questione relativa ai vantaggi è bene fare prima una distinzione tra certificazioni di sistema e certificazioni di prodotto: La certificazione di sistema definisce i criteri attraverso cui un’organizzazione può gestire il suo ciclo produttivo in modo da soddisfare i bisogni dei clienti, nell’ottica del miglioramento continuo. Le più note certificazioni per aziende sono la certificazione ISO 9001, che riguarda i sistemi di gestione della qualità, l’ISO 14001 e l’EMAS il sistema di gestione ambientale, l’ISO 45001 il sistema di gestione per la salute e sicurezza sul lavoro, l’ISO 22000 la sicurezza alimentare, l’UNI ISO 37001 il sistema di gestione per la prevenzione della corruzione, il SA8000 la gestione etica e la responsabilità sociale. La certificazione di prodotto è invece associata a un prodotto tangibile o a un servizio e assicura che siano rispettati determinati requisiti tecnici, stabiliti dalle norme nazionali o internazionali. È il caso della certificazione per la rintracciabilità di filiera ISO 22005, degli standard degli standards GFSI (Global Food Safety Initiative) tra cui BRC, BRC Packaging, IFS FOOD, IFS Broker, FSSC 22000, Global Gap, ecc.. Una scelta che fa la differenza Ora torniamo alla domanda iniziale: perché certificarsi? Quali sono i vantaggi e i benefici per l’intera organizzazione aziendale? Al giorno d’oggi, i clienti chiedono alle aziende una maggiore attenzione alla qualità, all’ambiente e un maggiore impegno nel sociale. Per questo, agire nel pieno rispetto di tutti gli standard di qualità, sicurezza e sostenibilità, previsti dalla normativa, è una scelta che può davvero fare la differenza. Dobbiamo, infatti, immaginare la certificazione aziendale come un irrinunciabile biglietto da visita, un riconoscimento, capace di offrire all’azienda un vero e proprio vantaggio competitivo. Per capire meglio il perché esaminiamo più da vicino i principali vantaggi: Credibilità Un’azienda certificata non acquisisce solo un valore per sé, ma mostra ai suoi clienti quanto tiene alla tutela ambientale, alla sicurezza alimentare, alla qualità dei suoi prodotti e servizi, alla sicurezza nei luoghi di lavoro. In questo modo il cliente potrà fare una scelta più consapevole e l’azienda accrescerà la sua reputazione, soprattutto quando l’acquirente è alla ricerca di garanzie, nel rispetto dei suoi standard. Semplificazione Le certificazioni di sistema aiutano a semplificare le procedure organizzative, a standardizzare e automatizzare i processi, a razionalizzare le attività e a ottimizzare i tempi e le risorse. Sarà così più facile raggiungere in meno tempo gli obiettivi prefissati. Efficienza ed efficacia Maggiore flessibilità significa appunto maggiore efficienza ed efficacia dei processi produttivi interni. Gestire un’organizzazione secondo un approccio sistemico e per processi consentirà di rendere più snelle le procedure, di evitare duplicazioni e sovrapposizioni, di rilevare errori, di creare sinergie e di ottenere migliori prestazioni nel tempo. Trasparenza Possedere una certificazione vuol dire anche favorire l’accesso ai documenti, condivisione dei dati, migliore comunicazione e trasparenza verso i dipendenti e verso i consumatori, che potranno contare su un servizio o un prodotto finale di qualità. Soddisfazione dei clienti Le organizzazioni certificate sono più attente alle esigenze dei clienti, sanno coglierne i bisogni latenti e trovare nuovi spunti di miglioramento per i propri servizi. L’azienda crescerà a un ritmo sostenuto, aumenterà le proprie quote di mercato e conquisterà la loro fiducia nel medio-lungo periodo, il tutto grazie alla soddisfazione del cliente. Controllo e misurazione dei risultati Le organizzazioni certificate sono soggette a controlli e verifiche periodiche da parte di enti terzi. In questo modo sarà possibile monitorare e valutare nel tempo se si è fatto quanto pianificato in precedenza, sulla base di specifici indicatori di performance e grazie a processi standardizzati e dati certi migliorare le decisioni aziendali. Nuovi mercati Le certificazioni sono indispensabili per rispondere alle richieste sempre più pressanti della società in termini di qualità, salute, ambiente, sicurezza alimentare e nei luoghi di lavoro, un elemento strategico per differenziarsi dai competitors ed entrare, con una marcia in più, in nuovi mercati, mai esplorati prima. A questo punto non resta che chiedere ai titolari delle aziende: “Perché non certificarsi?” Certificarsi equivale a sposare un vero e proprio metodo per una gestione più attenta, responsabile e integrata della propria organizzazione. Si tratta, del resto, di un percorso quasi obbligato (se possibile intraprenderlo) alla luce degli attuali scenari globali, un’opportunità unica per crescere e innovare il proprio business. Io spero come sempre di averti ispirato per continuare a migliorarti, far crescere la tua azienda è fondamentale per far si che il tuo business non cessi di esistere ma si affermi sempre più all’interno del mercato. Il resto delle considerazioni lo lascio a te. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Alla prossima!

  • Rischio rumore: quando è obbligatorio effettuare la valutazione?

    Buongiorno, caro lettore, bentornato nella nostra rubrica settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi ti voglio parlare di uno dei rischi più comuni se non il più comune di tutti, il rischio rumore. Capita molto spesso ai nostri tecnici di eseguire sopralluoghi in situazioni lavorative dove il rumore è pressoché assordante, devi sapere chela questione non è assolutamente secondaria anzi è un argomento molto delicato che necessita delle giuste attenzioni. È importante che il livello di rumore sia controllato e che vengano forniti i corretti dpi ai lavoratori per far si che siano il loro udito venga protetto e preservato. Ma queste piccole accortezze possono bastare? Il rischio rumore rappresenta un elemento di criticità spesso sottovalutato, che espone i lavoratori non solo al rischio di malattie professionali (tra cui la più comune è l’ipoacusia), ma anche ad infortuni sul lavoro. Secondo il D.lgs. 81/2008, l’obbligo del Datore di lavoro è analizzare, attraverso il DVR, tale fattore di rischio e individuare le misure più appropriate di prevenzione e protezione. Rispetto ad altri fattori di rischio presenti nelle aziende, i danni da rumore vengono spesso sottovalutati, poiché i termini di causa-effetto non sono immediatamente riscontrabili; è difficile, infatti, comprendere se la perdita dell’udito (ipoacusia) derivi da fonti di rumore presenti all’interno dell’ambiente lavorativo (tecnoacusia) o da situazioni esterne (socioacusia). Quali sono i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori? Il rischio rumore non deve essere sottovalutato in quanto gli effetti sulla salute dei lavoratori possono essere anche piuttosto gravi. Dai dati statistici INAIL appare evidente che l’ipoacusia rappresenti una delle malattie professionali più comuni e che gli effetti più importanti, in fatto di danni provocati da rumore sul luogo di lavoro, sono: L’ipoacusia da rumore, ovvero la progressiva riduzione dell’udito; La sordità, ovvero la totale perdite dell’udito. In base al grado di esposizione, è possibile distinguere due situazioni che possono creare danni all’apparato uditivo: Esposizione a forte rumore (rumore di picco) che provoca dolore e lacerazioni al timpano (ad esempio un’esplosione). Esposizione a rumore tra 80 dB e 87 dB (valore limite ai sensi del D.lgs. 81/2008) che determina una potenziale e progressiva riduzione dell’udito. Tuttavia, gli effetti sulla salute dei lavoratori non si limitano alla ipoacusia e sordità, ma possono determinare effetti extrauditivi sul sistema neuropsichico (insonnia, affaticamento, nevrosi etc.), cardiocircolatorio (ipertensione, miocardia), respiratorio, intestinale (ulcere), sull’apparato digerente (gastrite) o ancora sull’apparato endocrino (aumento dei livelli di ormoni) Inoltre, una delle problematiche che potrebbe insorgere, riguarda le comunicazioni verbali e la percezione di segnali acustici di sicurezza, che un ambiente con eccessivo rumore potrebbe faticherebbero a diffondersi aumentando la probabilità di infortuni sul lavoro. Ne consegue che la valutazione del rischio rumore debba essere condotta da tecnici specializzati in modo approfondito e puntuale considerando tutti i fattori di rischio correlati. Cosa stabilisce il D.LGS. 81/2008? La valutazione rischio rumore è l’analisi del livello di esposizione al rumore dei lavoratori, distinti per gruppi omogenei, all’interno degli ambienti di lavoro. Tale valutazione ha lo scopo di accertare che l’esposizione al rumore rientri entro i limiti di sicurezza definiti dalla Normativa e in caso contrario che i lavoratori siano dotati di idonei DPI per la protezione dell’udito (otoprotettori) e che siano sottoposti a sorveglianza sanitaria. Tale valutazione deve essere effettuata generalmente in modalità strumentale con l’ausilio di un fonometro, essa consente di valutare il livello di pressione acustica (espressa in Decibel) emessa da attrezzature e macchinari presenti nei luoghi di lavoro e più specificatamente in corrispondenza dei punti in cui sostano o transitano i lavoratori. In casi particolari, ovvero quando il livello di esposizione al rumore è modesto, la valutazione può essere effettuata senza l’ausilio di strumenti, in questo caso si parla di valutazione del rischio rumore senza misurazione (es. uffici). La valutazione del rischio rumore, negli ambienti di lavoro, è trattata nel D.lgs. 81/2008 all’interno dei rischi da agenti fisici (Titolo VIII capo II). Più specificatamente, l’art. 190 del D.lgs. 81/2008 impone al Datore di Lavoro l’obbligo di effettuare la valutazione del rumore all’interno della propria azienda, al fine di individuare i lavoratori esposti al rischio rumore ed attuare adeguati interventi di prevenzione e protezione per la salute e sicurezza. Nella valutazione rischio rumore il Datore di Lavoro deve considerare: Il livello, il tipo e la durata dell’esposizione; I valori inferiore e superiore di azione pari a 80 e 85 dB; Il valore limite di esposizione pari a 87 dB; Gli effetti sulla salute e sicurezza dei lavoratori esposti Le misure preventive da adottare (formazione, addestramento, turnazione del personale, sorveglianza sanitaria, etc) Le misure protettive più idonee (DPI per l’udito o otoprotettori). L’art. 189 del TUSL impone al Datore di Lavoro le azioni di seguito tabellate, in funzione del livello di esposizione al rumore medio ponderato giornaliero dei lavoratori. Azioni a carico del datore di Lavoro se il livello di esposizione è: >80 dB Obbligo di formazione ed informazione per i lavoratori Controllo sanitario su richiesta del lavoratore Obbligo di fornire i mezzi di protezione >85 dB Obbligo di usare/far usare i DPI Obbligo di sorveglianza sanitaria >87 dB Individuazione delle cause di esposizione Modifica dei processi per ridurre l’esposizione Modifica delle misure di protezione Quando è obbligatorio effettuare la valutazione rischio rumore? La valutazione del rischio rumore è sempre obbligatoria in quanto il legislatore impone al Datore di Lavoro l’obbligo di valutare tutti i rischi potenzialmente presenti in azienda. Ne consegue che, anche nel caso in cui il livello di esposizione al rumore risulti inferiore 80 dB, sia necessario riportare nel DVR l’indicazione circa l’assenza di tale fattore di rischio, correlato con i relativi documenti e rilevazioni a sostegno di tale affermazione. Uno strumento utile a comprendere se la propria attività sia soggetta all’obbligo di misurazioni fonometriche è l’elenco di attività e mansioni normalmente sotto gli 80 dB, riportato nell’Allegato 2 del PAF (Portale Agenti Fisici). Nel caso in cui la valutazione venga effettuata mediante indagine fonometrica, sarà necessario predisporre un documento specifico che costituisce parte integrante del DVR (sotto forma di Allegato). L’esito della valutazione del rumore deve quindi essere inserito all’interno di altri documenti riguardanti la sicurezza, tra cui e ove previsto: Piano Operativo della Sicurezza (POS); Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenti (DUVRI). Informativa sui rischi Come si effettua una corretta valutazione rischio rumore? La valutazione dei livelli di rumore in ambiente lavorativo serve a identificare la presenza di fonti acustiche che possono compromettere la salute e la sicurezza dei lavoratori esposti. Come citato nel paragrafo precedente la valutazione rischio rumore è richiesta in tutte le aziende, indipendentemente dal settore produttivo e deve essere effettuata da un tecnico qualificato. In base alla gravità di rischio si distinguono due casi: Valutazione del rischio rumore senza misurazioni attraverso l’ausilio dei dati presenti in letteratura Valutazione del rischio con misurazioni fonometriche. Nello specifico la valutazione strumentale del rumore viene eseguita mediante l’utilizzo di fonometri, strumenti in grado di quantificare i livelli di Decibel nell’arco temporale delle otto ore lavorative, restituendo valori di fondo e di picco che, confrontati con i valori limite definiti per legge, danno una chiara indicazione sulla necessità o meno di dover adottare misure preventive, protettive o entrambe. Tale valutazione strumentale dovrà quantomeno contenere le seguenti informazioni specifiche: Data e firma del tecnico che ha effettuato la valutazione Data e firma del Datore di Lavoro, del RSPP del Medico Competente e del RLS Dati relativi al fonometro utilizzato Certificato di taratura del fonometro in corso di validità Valutazione del livello di esposizione per gruppi omogenei dei lavoratori Indicazioni circa i DPI più appropriati in funzione della tipologia di rumore (suoni acuti o gravi) e del livello di esposizione. Considerazioni riguardanti l’ergonomia dei DPI da utilizzarsi in relazione alle procedure operative di lavoro nonché alla compatibilità con altri DPI in dotazione ai lavoratori. Valutazione rischio rumore va aggiornata? L’art. 181 comma 2 del D.lgs. 81/2008 stabilisce che “la valutazione dei rischi derivanti da esposizioni ad agenti fisici è programmata ed effettuata, con cadenza almeno quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del servizio di prevenzione e protezione in possesso di specifiche conoscenze in materia”. Quali sono i motivi per cui è necessario effettuare l’aggiornamento della valutazione del rischio rumore? Sostanzialmente i motivi principali sono: L’introduzione di nuovi macchinari La vetustà dei macchinari esistenti con presumibile aumento del livello di rumorosità emesso dagli stessi Modifiche dei processi lavorativi con conseguente variazione dei livelli di esposizione media ponderata giornaliera. Se vi sono cambiamenti o modifiche, che fanno sì che il rumore aumenti in modo significativo, la valutazione del rischio rumore deve essere aggiornata anche prima della naturale scadenza quadriennale. In generale, quando i processi o l’introduzione di nuove macchine modifichino sostanzialmente il livello di rumorosità dei luoghi di lavoro. Misure di prevenzione e protezione del rischio rumore Quindi dopo averti offerto una panoramica completa circa questo rischio, rispondiamo alla domanda che ci siamo posti in durante l’apertura di questo breve articolo. Per ridurre i danni provocati da rumore sui luoghi di lavoro, è possibile adottare varie misure di prevenzione e protezione, tra cui: Ridurre il rumore alla fonte con l’adozione di attrezzature con bassa emissione di rumore; Isolare la sorgente sonora utilizzando materiali assorbenti per pareti, muri e soffitti degli ambienti di lavoro; Limitare il tempo di esposizione del lavoratore; Utilizzare i DPI come cuffie, tappi monouso, tappi auricolari modellati, caschi per il rumore; Sensibilizzare i dipendenti sull’importanza di proteggere l’udito. Gentile lettore, spero di essere stato abbastanza esaustivo, ma se leggendo l’articolo ti dovessero essere sorte delle domande non esitare a contattarmi, sarò più che lieto di fare due parole insieme andando a chiarire gli eventuali dubbi. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Al prossimo articolo!

  • Datore di lavoro e RSPP: ciò che devi sapere sul loro rapporto

    Buongiorno, caro lettore, eccoci tornati alla carica con il nuovo articolo della settimana andando a trattare un rapporto molto complesso e chiacchierato. In ogni azienda che abbia un minimo di interesse nei confronti della sicurezza propria e dei propri dipendenti sa, che una delle “pedine” cardine, è quella dell’RSPP ovvero il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Oltre a ricordarti che, la nomina dell’RSPP è uno dei compiti non delegabili da parte del datore di lavoro, volevo analizzare i vari tipi di rapporto che possono intercorrere tra le due figure in questione, si sa quando vi è la responsabilità di mezzo vi sono sempre alcuni aspetti tecnici da tenere in considerazione. Vediamo ora quali. Qual è la definizione di RSPP, quali sono le sue funzioni? L’RSPP è definito all’art. 2del D.lgs. n. 81/2008 come: «La persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi», con la precisazione che l’attività di “coordinamento” va inteso come l’esercizio di direzione funzionale, rivolto alla migliore valorizzazione e composizione sinergica delle competenze professionali facenti capo a ciascun ASPP (addetto al servizio di prevenzione e protezione). Avendo, i due pilastri fondamentali della prevenzione e della protezione dai rischi, una funzione essenziale per la tutela della sicurezza e dalla salute dei lavoratori, è in questa prospettiva di approccio giuridico-culturale che va analizzata e interpretata la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. In modo molto semplice e facilmente comprensibile è impensabile che questa figura possa essere oggetto di una designazione solo formale, come dire “sulla carta”, sia in relazione all’importanza e alla delicatezza dei compiti che la legge assegna al servizio di prevenzione e protezione, e sia in relazione al rapporto intercorrente con il datore di lavoro. Che tipo di rapporto accomuna l'RSPP e il datore di lavoro? Mi sento di spendere due parole su un aspetto che potrà sembrare banale ma in realtà non è infatti, va evidenziato che il rapporto del RSPP con il datore di lavoro si svolge secondo due linee fondamentali: dipendenza e collaborazione. La dipendenza non è da intendersi in senso tecnico-giuridico, bensì come avvalimento funzionale, in ragione del potere direttivo e gerarchico facente capo al datore di lavoro. Mentre la collaborazione è motivata dal grado di complessità tecnica degli adempimenti per i quali è richiesta (valutazione dei rischi e redazione DVR), cui il datore di lavoro da solo (salvo alcuni casi particolari, peraltro subordinati alla frequenza di apposito corso di formazione) non potrebbe fare fronte. Per quanto riguarda l’RSPP esterno all’azienda, il rapporto di dipendenza originerà e sarà modulato anche in base ai termini stabiliti in fase contrattuale. Cosa ci dice la Corte Suprema in merito al loro rapporto? La giurisprudenza della suprema Corte ha ormai definitivamente chiarito che, all’interno del modello di impresa sicura codificato nel D.lgs. n. 81/2008, in aderenza agli standard fissati dalle direttive comunitarie, l’RSPP non figura tra i soggetti personalmente destinatari, sul piano contravvenzionale, degli obblighi di sicurezza e di salute, e dunque il suo agire non è direttamente rapportabile a condotte penalmente sanzionate, atteso che il legislatore ha inteso assegnare a questa figura compiti tendenzialmente propositivi e programmatici, ma non di autonomia decisionale od operativa. Il che non vuol dire che, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, il Rspp non possa essere chiamato a rispondere sia penalmente, sia in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale. Occorre, infatti, a questo riguardo distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionistiche, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo quali sono le contravvenzioni, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o malattie professionali. La giurisprudenza è pressoché univoca nel ritenere quella dell’RSPP una funzione integrativa del sistema di sicurezza aziendale, una sorta di ausilio tecnico per il datore di lavoro: cosicché il soggetto che, in qualità di RSPP, redige materialmente il piano non assume la qualifica di responsabile della sicurezza dei lavoratori dell’impresa. La giurisprudenza ha altresì chiarito che l’atto di designazione del RSPP non equivale al conferimento della delega in materia antinfortunistica, atteso che la figura (obbligatoria) del RSPP non coincide con quella (facoltativa) del dirigente delegato all’osservanza delle norme antinfortunistiche e alla sicurezza dei lavoratori. Stante che il (dirigente) delegato per la sicurezza è figura eventuale, destinataria di poteri e responsabilità originariamente e istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro, il quale deve essere formalmente individuato e investito del suo ruolo con le modalità rigorose dell’art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008, ne deriva che il datore di lavoro non può dunque ritenersi esente da responsabilità per il solo fatto di aver provveduto a designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. E se vi fosse la piena autonomia decisionale... Qualora invece venga conferita al RSPP una delega di funzioni, quest’ultimo, non limitando più la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì divenendo titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa, è perciò investito della quota di responsabilità contravvenzionale, corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate. In questo modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del RSPP diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale. Ciò urterebbe, infatti, contro il divieto di cumulo funzionale, ricavabile dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008 il quale, nel consentirlo nelle ipotesi indicate dalla norma, postula di contro, per le imprese escluse, il principio della necessaria distinzione funzionale e soggettiva tra datore di lavoro e Rspp. E proprio l’espresso divieto normativo di delegabilità dell’attività di valutazione del rischio non consentiva in passato – né consente ora in linea di principio, salve le indicazioni di cui ultra - di far ricorso al cosiddetto “principio dell’affidamento”: nel senso che (fatta salva l’ipotesi di dolo del Rspp) il datore di lavoro non può addurre di versare in una situazione di “buona fede” o ”ignoranza incolpevole”, al fine di sottrarsi alla sua personale responsabilità, rispetto a una condotta “colposa” del Rspp. Il datore di lavoro deve essere sempre a conoscenza di ciò che vi è nel DVR? Partendo dal presupposto che è il servizio di prevenzione e protezione a procedere materialmente alla: valutazione dei rischi professionali esistenti sul luogo e durante il lavoro all’elaborazione delle misure preventive e protettive dei sistemi di controllo di queste misure, delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali, redazione del relativo documento Già nel regime del D.lgs. n. 626/1994 una importante pronuncia della Corte di Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro che si avvale del servizio di prevenzione e protezione o comunque di persone competenti, sempre che assolva l’obbligo di valutare le capacità tecniche di chi redige materialmente il Dvr, quello di informarsi preventivamente sui rischi presenti nell’azienda ai fini della loro valutazione, e quello di verificare successivamente se il documento redatto affronti adeguatamente i temi della prevenzione e della protezione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tenendo conto delle informazioni acquisite sull’esistenza dei rischi nel rispetto di queste condizioni il datore non potrà dunque essere ritenuto responsabile. Aderente a questa impostazione è stata poi la quasi totalità delle successive pronunce della suprema Corte. Qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro a omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionistica, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale «che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo». Spero di averti fornito una panoramica il più completa possibile circa il rapporto che intercorre tra queste due figure, se vi fosse qualsiasi dubbio o perplessità non esitare a contattarci, i nostri tecnici saranno a completa disposizione. Ti auguro una buona giornata, alla prossima!

  • UNI EN 1090: marcatura CE per i componenti strutturali in acciaio o alluminio

    Buongiorno, gentile lettore oggi parliamo di materiali per l’edilizia nello specifico delle strutture in acciaio e alluminio. Negli ultimi decenni l’edilizia ha fatto passi da gigante, nuove tecnologie e innovazione caratterizzano qualsiasi tipo di intervento costruttivo, che sia pubblico o privato. Al giorno d’oggi per il Fabbricante di Prodotti da Costruzione saper gestire e superare le barriere tecnico-normative previste dal Commercio Internazionale diventa un importante tassello per l’evoluzione della propria azienda. Fortunatamente sviluppo molto spesso è sinonimo di maggior qualità, e l’Unione Europea ha stabilito degli standard CE al fine di garantire la libera circolazione dei prodotti da costruzione. La marcatura CE rappresenta una metodologia armonizzata per valutare, provare, calcolare, esprimere, garantire ed infine dichiarare le prestazioni di un prodotto da costruzione. Soluzione: La Norma Armonizzata EN 1090-1: Esecuzione di strutture di acciaio e di alluminio. Requisiti per la valutazione di conformità dei componenti strutturali riguarda la valutazione della conformità del controllo della produzione in fabbrica dei componenti strutturali in acciaio e alluminio utilizzati per le costruzioni di strutture in acciaio e miste acciaio - calcestruzzo ed è obbligatoria dal 1° luglio 2014 per l'immissione sul mercato di tali prodotti in Italia ed in tutta Europa. Cos'è la certificazione UNI EN 1090? La certificazione UNI EN 1090 è una certificazione obbligatoria a partire dal luglio 2014 per tutti i produttori di componenti strutturali in acciaio e alluminio. Questo tipo di certificazione è riconosciuta a livello internazionale. Viene certificata la capacità di una azienda a produrre materiale che risponde a tutte le caratteristiche qualitative richieste dalle norme UNI EN 1090 parte 1, 2 e 3, da parte di un ente terzo denominato ente di certificazione. Chi interessa la certificazione UNI EN 1090? La certificazione UNI EN 1090 interessa i produttori di strutture in acciaio o in alluminio (ad esempio le carpenterie metalliche) che dal 1° luglio 2014 hanno l’obbligo alla marcatura CE secondo la norma UNI EN 1090-1. La certificazione secondo UNI EN 1090 consente l'immissione sul mercato dei prodotti da costruzione all'interno dell'UE. Il 1° luglio 2013 è entrato in vigore il Regolamento europeo (UE) N. 305/2011 riguardante i prodotti da costruzione che introduce novità e obblighi per le aziende che operano nel mercato dei Prodotti da Costruzione e regola le condizioni per la marcatura CE. Le aziende che sono obbligate ad essere certificate secondo la UNI EN 1090 sono ad esempio i produttori dei seguenti componenti in acciaio o alluminio: prodotti in sezioni/profili di varia forma prodotti laminati (piastre, lamiere, nastri) barre, forgiati da acciaio e alluminio, protetti o non protetti contro la corrosione da rivestimenti o altri trattamenti superficiali, ad esempio anodizzazione dell'alluminio componenti in acciaio utilizzati in strutture composte acciaio-calcestruzzo Di conseguenza aziende che: lavorano nella propria sede (definita “stabilimento") l'acciaio per il cemento armato precompresso; realizzano strutture metalliche da posare in opera una volta finite; realizzano parti di strutture metalliche composte da posare in opera una volta finite; realizzano lamiere grecate; realizzano profilati formati a freddo; realizzano elementi strutturali; attuano una “pre-lavorazione” di elementi strutturali da posare in opera successivamente; producono carpenteria metallica; producono bulloni, chiodi e staffe. Cosa fare per avere il marchio CE sul proprio prodotto? Il processo da seguire per poter apporre il Marchio CE sul proprio prodotto varia a seconda della tipologia e della destinazione d’uso. In linea generale, il Fabbricante è tenuto ad implementare un Sistema di Controllo del Processo di Produzione di Fabbrica (FPC) e ad effettuare prove in conformità alla Norma Armonizzata di riferimento. La conformità di tale sistema di controllo (Factory Production Control) deve essere poi certificata da un Organismo Notificato. Al termine di questo percorso, il Fabbricante può apporre sul prodotto la Marcatura CE. La base della Marcatura CE ai sensi della Norma EN 1090-1 è quindi costituita da: Una Dichiarazione di Prestazione redatta dal Fabbricante. Un Certificato di Conformità del Controllo di Produzione in Fabbrica emesso dall’Organismo Notificato. L'Allegato ZA.2 alla Norma EN 1090-1 stabilisce i compiti del fabbricante e dell'Organismo Notificato ai fini della certificazione: Il fabbricante implementa un Sistema di Controllo della Produzione di Fabbrica (FPC), ovvero una sistematica azione di controllo interno permanente della propria produzione che comprende anche lo svolgimento di Prove Iniziali di Tipo (ITT/ITC) e ulteriori prove su campioni di prodotto secondo un programma di prove definito; L’Organismo Notificato, a seguito di un’attività di ispezione iniziale e verifica dell’FPC, certifica che quanto implementato e prodotto sia conforme agli Standard cogenti ed emette un Certificato di Conformità del Controllo della Produzione in Fabbrica. A seguito della Certificazione di conformità, il fabbricante emette e sottoscrive una dichiarazione di prestazione che, assieme al Certificato, costituisce la base per l'apposizione della marcatura CE. Il fabbricante può apporre il Marchio CE sui propri prodotti e commercializzarli. Durante il periodo di validità della certificazione, l’Organismo di Certificazione svolge verifiche di sorveglianza finalizzate al controllo del mantenimento del sistema. È obbligatoria la certificazione UNI EN 1090? La certificazione secondo la UNI EN 1090 è obbligatoria dal 1° luglio 2014 per tutti i produttori di componenti strutturali in acciaio e alluminio che intendono vendere il loro prodotto in Italia e in Europa. I vantaggi della certificazione UNI EN 1090 La certificazione UNI EN 1090 serve per: poter marcare CE i propri prodotti strutturali in acciaio e alluminio e di conseguenza poterli vendere all'interno della comunità europea e ovviamente in Italia lavorare all'estero partecipare agli appalti pubblici essere inserito dai clienti all'interno del loro albo fornitori di prima scelta La marcatura CE è combinabile con altre certificazioni? Sì, la Marcatura CE è integrabile con altre certificazioni di prodotto o legate al sistema di gestione in ambito Qualità, Ambiente, Salute e Sicurezza. In ambito EN 1090, si segnala l’importanza dell’integrazione tra la Marcatura CE, la EN ISO 3834 e la Qualifica dei Procedimenti di saldatura e degli Operatori. Spero tu abbia apprezzato il breve articolo che avevo da proporti oggi, così come sono sicuro hai apprezzato gli altri. Se leggendolo ti è sorta qualche domanda non esitare a contattarmi, io e il mio team saremmo il più esaustivi possibile in merito. Ti ringrazio e ti auguro una buona giornata. Alla prossima!

  • Certificazione PEFC: tutto quello che devi sapere

    Buongiorno, Caro lettore, oggi voglio introdurti una certificazione molto importante a livello ambientale, un marchio che molto spesso avrai notato durante l’acquisto di uno degli svariati prodotti che lo riportano. Come avrai intuito dal titolo sto parlando del marchio PEFC, un piccolo simbolo ma che ha un significato molto profondo, ovvero, la salvaguardia delle foreste mondiali; quindi, non chiudere l’articolo solo perché pensi ti possa far perdere cinque minuti. Ti garantisco che anche se direttamente non lavori la carta, il legno, i cosmetici o qualsiasi altro prodotto che sfrutti i frutti delle foreste, potrai comunque imparare qualcosa per acquistare prodotti più sostenibili che non recano danni all’ambiente in tutta la loro filiera produttiva. Entriamo ora un pochino più nel dettaglio... Quali sono i vantaggi di avere delle foreste sane? Le foreste giocano un ruolo fondamentale per l’ambiente, la popolazione e l’economia. Oltre a ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici e delle catastrofi naturali, rappresentano alcune delle aree biologiche più ricche della terra. Forniscono cibo, materie prime rinnovabili per molti dei nostri prodotti e mezzi di sussistenza per milioni di persone. Cambiamenti climatici e disastri naturali Catturando e immagazzinando carbonio, le foreste, assorbono significanti quantità di anidride carbonica dall’atmosfera, un albero continuerà ad immagazzinare carbonio anche dopo che è stato raccolto e usato, mobili e case in legno possono trattenerlo per centinaia di anni. Ecco perché è così importante utilizzare prodotti a base legnosa. I prodotti a base di legno e carta, prodotti con materie prime da foreste gestite in modo sostenibile, sono una scelta saggia, rinnovabile ed ecologica rispetto ad altri materiali come la plastica, che da sola, usa il 4% della produzione petrolifera globale. Allo stesso modo, la produzione di energia da legno e biomassa sempre da foreste gestite in modo sostenibile, può sostituire altri combustibili ad alta emissione di gas serra, come petrolio e carbone. Altra immensa capacità delle foreste è quella di far fronte ai pericoli naturali, fungendo da barriere contro forti piogge, inondazioni e forti venti, aiutano a controllare o ridurre il rischio di erosione del suolo, frane e valanghe. Le foreste hanno quindi un ruolo importante nella protezione delle case e delle comunità di animali e persone, e aiutano a mantenere le condizioni necessarie per la produzione agricola. La Biodiversità delle foreste Biodiversità è un termine usato per indicare la diversità della vita sulla Terra. Le foreste sono tra gli ecosistemi più ricchi del pianeta, ospitano circa l’80% degli animali e delle piante terrestri del mondo. Grazie alla loro presenza e interazione, possono avere luogo processi ecologici come l’impollinazione, la dispersione dei semi e la fertilizzazione del suolo. La biodiversità costituisce la base di molti dei valori e dei servizi che la società ricava dalle foreste, incluso cibo, fibre, biomasse, legno e rifugi per le persone e gli animali selvatici. Acqua e terreno Le foreste svolgono un ruolo chiave nella protezione delle risorse idriche e del ciclo idrico globale, gran parte dell’acqua potabile del mondo proviene da aree boschive. Attraverso le loro radici le foreste assorbono l’acqua dell’atmosfera che cade sotto forma di pioggia. Grazie al processo di evapo-traspirazione, rilasciano nuovamente acqua nell’atmosfera. Senza questo fenomeno, vi sarebbe un conseguente aumento della siccità e della desertificazione. Le foreste aiutano anche a gestire il ciclo dei nutrienti del terreno. Il suolo contiene una moltitudine di organismi, come lombrichi, formiche, termiti, batteri e funghi. La biodiversità del suolo aiuta a regolare l’insorgenza di parassiti e malattie negli ecosistemi agricoli e naturali, e inoltre controlla o riduce l’inquinamento ambientale. Questioni sociali Legna da ardere e carbone sono le principali fonti di energia per circa due miliardi di persone in tutto il mondo. La medicina tradizionale che usa materie prime derivanti dalle foreste. Le attività forestali come la caccia e la pesca forniscono oltre il 20% del fabbisogno proteico delle famiglie nei paesi in via di sviluppo. I prodotti forestali non legnosi come frutta, verdura e funghi sono componenti importanti della dieta nelle aree rurali. Le foreste contribuiscono in modo significativo alle economie nazionali e regionali. Nei paesi in via di sviluppo, le imprese forestali forniscono circa il 13–35% di tutto l'occupazione rurale non agricola, il che equivale a 17 milioni di posti di lavoro nel settore formale e 30 milioni di posti di lavoro in quello informale. Dati acquisiti dall’unione internazionale delle organizzazioni di ricerca forestale (IUFRO). Cosa significa il marchio PEFC? È possibile trovare l'etichetta PEFC su una vasta gamma di prodotti, dai tessuti, alla carta igienica e ai blocchi per appunti, ai pavimenti in legno, agli scaffali fino alle tettoie per il giardino. E naturalmente, non bisogna dimenticare il packaging: bustine di tè, cereali, riso e molto altro ancora sono disponibili in confezioni certificate PEFC. L'etichetta PEFC ti aiuta a fare una scelta semplice: scegliere un prodotto realizzato con una risorsa naturale e rinnovabile ed allo stesso tempo sostenere le foreste. Quando vedi il marchio PEFC su un prodotto, significa che proviene da una foresta certificata PEFC (ovviamente, solo il materiale di origine forestale e arborea contenuto nel prodotto). Una foresta certificata PEFC è una foresta gestita in linea con i più severi requisiti ambientali, sociali ed economici. Una foresta che ci sarà anche per le generazioni future. Attraverso la certificazione PEFC, siamo in grado di monitorare il materiale dalle foreste fino al prodotto finale, seguendo tutta la catena di fornitura. Il meccanismo per tracciare il materiale si chiama certificazione di Catena di Custodia. Oltre a garantire che il materiale proviene da una foresta certificata, il marchio PEFC tutela anche i diritti dei lavoratori lungo tutto il processo di produzione. Aziende di trasformazione La certificazione di Catena di Custodia PEFC fornisce una garanzia, verificata in maniera indipendente, che il materiale di origine legnosa e arborea certificato contenuto in un prodotto provenga da foreste gestite in modo sostenibile. Integra la certificazione di gestione forestale sostenibile PEFC, che assicura che le foreste siano gestite in linea con i rigidi requisiti ambientali, sociali ed economici. Perché certificarsi? Dalle piccole e medie imprese ai marchi globali, sempre più aziende lungo la catena di valorizzazione del legname vogliono dimostrare che i materiali di origine forestale e arborea utilizzati provengono da fonti legali e sostenibili. Alcuni lo stanno facendo in risposta ai requisiti legislativi e normativi, altri si rendono conto dei vantaggi di fornire garanzie di sostenibilità sui prodotti per affrontare le preoccupazioni ambientali, sociali ed etiche. Indipendentemente dalla motivazione, lo strumento preferito dalle aziende per dimostrare l'approvvigionamento legale e sostenibile di prodotti forestali è la certificazione di Catena di Custodia PEFC. Conformità alla legislazione I governi di tutto il mondo hanno messo in atto una normativa volta a sostenere il commercio di legname legale e a negare l'ingresso sul mercato di prodotti in legno di origine illegale. La certificazione di Catena di Custodia PEFC è progettata per consentire di dimostrare la conformità a tali requisiti legislativi, offrendo l'accesso a questi nuovi mercati. Soddisfare le aspettative dei clienti In una società dove il consumo etico è in forte aumento è fondamentale dimostrare l'impegno a frenare la deforestazione, conservare la biodiversità e agire responsabilmente a livello sociale. Ad esempio, quasi 30 governi nazionali hanno già messo in atto politiche sostenibili di approvvigionamento di legname. Allo stesso modo, un numero crescente di aziende richiede la prova di sostenibilità dai propri fornitori, con influenti associazioni imprenditoriali come il Consumer Goods Forum (CGF) che incoraggiano le aziende a insistere sulla certificazione come PEFC. Disponibilità e scelta Con il 60% delle foreste al mondo certificate PEFC (più di 300 milioni di ettari), si ha accesso a una grande fornitura di prodotti forestali legnosi e non legnosi certificati PEFC. Oltre 20.000 aziende in tutto il mondo hanno la certificazione di Catena di Custodia PEFC, garantendo la disponibilità sul mercato di un'ampia gamma di prodotti certificati PEFC. Progettato per te Non tutte le aziende sono uguali, per questo ci sono diverse soluzioni e possibilità. Sono disponibili diverse opzioni per la certificazione di Catena di Custodia PEFC: La certificazione del gruppo PEFC è soluzione per la certificazione di Catena di Custodia PEFC per le piccole aziende. Le imprese edili possono trarre vantaggio dalla certificazione di progetto PEFC per dimostrare la loro scelta di costruire con legname certificato PEFC. Le organizzazioni con attività di lavorazione in più sedi possono ottenere la certificazione per tutti i loro siti con un unico certificato tramite la certificazione multisito PEFC. Come ottenere la certificazione di Catena di Custodia? Per ottenere la certificazione Catena di Custodia PEFC, è necessario sviluppare e implementare procedure per tracciare l'acquisto, il monitoraggio, la produzione, la vendita e la registrazione di materiali certificati. Vengono utilizzate le stesse linee guida ISO accettate a livello globale per garantire l'indipendenza, la trasparenza e l'imparzialità del processo di certificazione. Qual è l’iter di certificazione PEFC? Qual è la certificazione giusta per te? In primo luogo, è necessario determinare l'ambito della certificazione. Quali prodotti vuoi vendere con una dichiarazione o il marchio PEFC? Stai cercando di certificare un progetto una tantum? Puoi decidere l'esatta portata della tua certificazione e, se necessario, forniamo diverse soluzioni di certificazione su misura come quelle citate in precedenza, ovvero, la certificazione multisito, di gruppo o di progetto. Quali sono i requisiti della certificazione PEFC? Per ottenere la certificazione Catena di Custodia PEFC, è necessario soddisfare determinati requisiti chiave: Le procedure dei sistemi di gestione devono essere conformi allo standard PEFC International Chain of Custody (PEFC ST 2002 - ITA 1002 è la traduzione italiana). È possibile integrare queste procedure nei sistemi esistenti che l'azienda potrebbe aver già implementato, ad esempio le procedure ISO 9001 o ISO 14001. È necessario identificare, verificare e formare il personale responsabile dell'esecuzione delle attività che parteciperanno all'implementazione e alla manutenzione della catena di custodia; questo include l'ufficio acquisti, il marketing e il personale di vendita. È fondamentale garantire che tutte le parti coinvolte abbiano un'adeguata conoscenza dello scopo e dei requisiti della certificazione Catena di Custodia. Sarà necessario mettere in atto i controlli necessari per verificare che il materiale di provenienza sia certificato PEFC: la produzione di prodotti certificati richiede l'acquisto di materiale certificato. Vi è un database nel sito ufficiale di PEFC dove identificare diversi fornitori. È necessario implementare processi per garantire che siano state separate la produzione o la gestione di prodotti certificati da merci non certificate e che sia stato accuratamente contabilizzato il contenuto di materia prima certificata in un prodotto che contiene sia materiale certificato che non certificato. La prova può essere richiesta in qualsiasi fase del processo. È inoltre necessario conservare i registri per dimostrare che tutti i sistemi sono conformi ai requisiti. Sarà quindi necessario condurre audit interni su base annuale. Questi audit interni si aggiungono agli audit esterni di terze parti. Il processo di certificazione Una volta che avete superato tutto il lavoro preparatorio e impostato il vostro sistema per la catena di custodia, siete pronti a richiedere la certificazione PEFC. L'audit L’organismo di certificazione valuterà il vostro sistema di Catena di Custodia, confrontandolo con gli standard della Catena di Custodia e verificando che tutti i requisiti siano soddisfatti. Ciò includerà una visita in loco da parte dei revisori dell'organismo di certificazione per valutare la conformità dell'azienda. Prima di emettere il certificato l'organismo di certificazione devono essere risolti eventuali problemi di non conformità. Il certificato Se l'organismo di certificazione ritiene che il sistema di Catena di Custodia sia conforme ai requisiti di certificazione, rilascerà un certificato PEFC. Il certificato è valido per un periodo massimo di cinque anni. Durante tale periodo, l'organismo di certificazione effettuerà audit di sorveglianza annuali per confermare che le procedure messe in atto continuino a rispettare i requisiti della catena di custodia. Al fine di rinnovare la certificazione alla scadenza del certificato, è necessario sottoporsi a un controllo di rinnovo della certificazione. Ottieni i benefici della certificazione PEFC Per le aziende agli ultimi anelli della catena di trasformazione, come i proprietari di marchi e i rivenditori, la certificazione PEFC offre molti vantaggi: dalla promozione delle proprie scelte di approvvigionamento sostenibile alla soddisfazione dei rigidi requisiti normativi e di mercato. Soddisfare le aspettative dei clienti I prodotti certificati PEFC possono portare il marchio PEFC. Questo è importante, poiché i consumatori chiedono sempre più spesso che i prodotti che acquistano provengano da una fonte sostenibile. Infatti, le etichette sono la fonte più affidabile di informazioni per i consumatori sul fatto che un prodotto sia responsabile dal punto di vista ambientale e sociale. In questi giorni, c'è un chiaro vantaggio, ma anche una chiara urgenza, di essere in grado di dimostrare l'impegno delle aziende per la sostenibilità. Acquistando e vendendo prodotti certificati PEFC, è possibile fornire un resoconto sul contributo della selvicoltura sostenibile verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile. L'approvvigionamento di materiale certificato contribuisce con tre aspetti al bilancio finale, poiché lo standard PEFC di gestione sostenibile delle foreste assicura che le foreste siano gestite in linea con rigorosi requisiti ambientali, sociali ed economici, creando valore per i suoi lavoratori e comunità. Assicura la tua fornitura PEFC è il più grande sistema al mondo per estensione di foreste certificate e gestite in modo sostenibile, l'utilizzo di materiale certificato PEFC consente di garantire la fornitura di materiale proveniente da fonti responsabili. Oltre 300 milioni di ettari di foreste certificate (60% del totale delle foreste certificate) in 45 paesi nel mondo forniscono quasi il 38% della produzione globale di legname rotondo industriale (FAO, 2018). Prova di tracciabilità La certificazione di Catena di Custodia PEFC monitora il legno proveniente da fonti sostenibili attraverso la catena di fornitura fino al prodotto finale. Dimostra che ogni fase della catena di lavorazione è strettamente controllata attraverso una verifica indipendente per garantire l'esclusione di fonti non sostenibili. Gli audit sono effettuati regolarmente e costantemente da organismi di certificazione terzi ed indipendenti. Spero di non aver deluso le tue aspettative, e che questa lettura ti possa aver lasciato qualche spunto in più per migliorare la tua attività, che tu voglia o meno adottare la certificazione PEFC. Anche solo acquistare il packaging dei tuoi prodotti con imballaggi provenienti da foreste sostenibili è un piccolo passo, ma che in grande scala sappi che fa la differenza. Se hai qualsiasi dubbio sai dove trovarmi, ti aspetto la prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Il medico competente: tutto ciò che devi sapere

    Buongiorno, caro lettore ben tornano nella nostra rubrica settimanale sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Come penso tu possa aver facilmente intuito dal titolo oggi voglio fare chiarezza circa una delle figure principali della sicurezza sul lavoro, ovvero il medico competente. Ognuno di noi nella sua carriera lavorativa, breve o lunga che sia sicuramente si sarà sottoposto ad una visita medica che attesta la propria idoneità a svolgere un determinato tipo di mansione, quindi avrai facilmente intuito ciò a cui mi sto riferendo. Bene, andiamo a chiarire ora quali sono i compiti di questa figura avvalendoci degli articoli presenti nel D.lgs. 81.08 per formulare le domande che potrebbero sorgere ai più inesperti. Chi è il medico competente? Il medico competente è una figura in possesso di specifici titoli e requisiti formativi e professionali, che collabora con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi. È nominato dallo stesso, per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti previsti dal decreto legislativo n. 81/2008. Quali sono le modalità di svolgimento dell’attività di medico competente? L’attività del medico competente può essere svolta in due modalità: Sia come dipendente o collaboratore di una struttura esterna pubblica o privata convenzionata con l’imprenditore; Sia come libero professionista o dipendente del datore di lavoro. Quali sono le funzioni del medico competente? Le funzioni del medico competente previste dal D.lgs. 81/2008 possono essere raggruppate in tre categorie di compiti: professionali, informativi e collaborativi. Attività di natura professionale I compiti di natura professionale svolti dal medico competente riguardano: Sorveglianza sanitaria (Art. 41, Comma 2) La sorveglianza sanitaria dei dipendenti, consistente nell’obbligo di effettuare gli accertamenti sanitari preventivi e periodici ed eventuali visite mediche se richieste dal lavoratore, qualora tale richiesta sia correlata ai rischi professionali, oppure in occasione di cambi di mansione per verificare l’idoneità del lavoratore alla mansione specifica o, infine, nei casi previsti dalla normativa vigente, alla cessazione del rapporto di lavoro nonché, a seguito dell’intervento ex D.lgs. 106/2009, in caso di visita pre-assuntiva e di visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione. Giudizio di idoneità (Art. 41, Comma 6) Il giudizio di idoneità alla mansione specifica del lavoratore. L’idoneità o capacità di lavoro, cioè l’attitudine a compiere un lavoro, viene distinta in idoneità generica e specifica, la prima è riferita a fattori fisiologici e non necessita di particolare preparazione, mentre la seconda si fonda sull’abilità, capacità ed esperienza del lavoratore. Il giudizio del MC non sempre è assoluto (idoneo o non idoneo) ma può essere formulato per gradi intermedi: idoneità alla mansione assegnata; idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; inidoneità temporanea (in questo caso devono essere precisati i limiti temporali di validità); inidoneità permanente. I giudizi formulati dal MC devono essere rilasciati per iscritto, copia a lavoratore e datore di lavoro. Cartelle sanitarie (Art. 25, Comma 1) L‘istituzione e l’aggiornamento delle cartelle sanitarie di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, da custodire, con salvaguardia del segreto professionale, salvo il tempo strettamente necessario per l’esecuzione della sorveglianza sanitaria e la trascrizione dei relativi risultati, presso il luogo di custodia concordato con il datore di lavoro al momento della nomina. Tenuta dei registri (Artt. 243, 280, Comma 1) La tenuta dei registri degli esposti ad agenti cancerogeni e biologici per conto del datore di lavoro, che li deve istituire ed aggiornare tramite il medico competente. Funzioni di natura informativa I compiti informativi svolti dal Medico Competente riguardano le seguenti attività: Collaborare all’attività di formazione e informazione dei lavoratori, per la parte di propria competenza; Fornire informazione ai lavoratori sul significato e sui risultati della sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti; Informare il datore di lavoro dell’esito di accertamenti sanitari che abbiano evidenziato nei lavoratori esposti in modo analogo ad uno stesso agente cancerogeno o biologico l’esistenza di un’anomalia imputabile a tale esposizione; Consegnare al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, copia della cartella sanitaria e di rischio; Comunicare per iscritto, in occasione delle riunioni periodiche di prevenzione e protezione dei rischi, i risultati anonimi e collettivi degli accertamenti effettuati e fornire indicazioni sul significato dei risultati. Funzioni di natura collaborativa Infine, il medico competente, sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva e delle situazioni di rischio, ha il compito di collaborare col datore di lavoro e col Servizio di Prevenzione e Protezione alla: Valutazione dei rischi: valutazione dei rischi e predisposizione ed attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori. In tale contesto dovrà partecipare alla riunione periodica di prevenzione ed informare il datore di lavoro sulle misure protettive speciali da attuare per i lavoratori esposti ad agenti cancerogeni ed a rischi biologici. Visita ambienti di lavoro: visita degli ambienti di lavoro almeno una volta l’anno, salvo stabilire una cadenza diversa, in base alla valutazione dei rischi; in tal caso dovrà darne comunicazione al datore di lavoro affinché questi provveda ad annotarlo nel documento di valutazione dei rischi Esposizione dei lavoratori, primo soccorso e promozione della salute: partecipare alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini delle valutazioni e dei pareri di competenza. Collaborare con il datore di lavoro alla predisposizione del servizio di primo soccorso. Cooperare alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di “promozione della salute”, secondo i principi della responsabilità sociale. Chi nomina il medico competente? Il D.lgs. 81/08 prevede che la nomina del medico competente sia carico del datore di lavoro e del dirigente, previa consultazione dell’RLS(Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza). In occasione della nomina del medico competente, il datore di lavoro deve accertare che questi sia in possesso di uno dei titoli o requisiti che consentono l’iscrizione nell’elenco dei medici competenti istituiti presso il Ministero della Salute. L’obbligo di nomina del medico competente può essere delegato anche ad altro soggetto aziendale. Se l’incombenza di nominare il medico competente viene conferita dal datore a un dirigente con atti, procedure, ordini di servizio ordinari, non è necessaria la delega. La nomina del medico competente è obbligatoria? La norma prevede esplicitamente l’obbligo per il datore di lavoro o dirigente di “nominare il medico competente per: Effettuare la sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal decreto legislativo” (art. 18, comma 1 lettera a), D.lgs. 81/2008), per inadempienza a tale obbligo il datore di lavoro o dirigente è sanzionato con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.644,00 a 6.576,00 euro. Previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (art. 18, comma 1 lettera s). La violazione della diposizione di cui alla lettera s), l’ammenda prevista è da 2.192,00 a 4.384,00 euro. È possibile nominare più medici competenti? L’art. 39 prevede che il datore di lavoro nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi d’imprese nonché qualora la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità, possa nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento. Come si nomina il medico competente? L’atto di nomina deve essere formalizzato da una apposita scrittura firmata dall’incaricante e sottoscritta per accettazione dal professionista. L’opportunità di formalizzare la nomina con una lettera è sostenuta dalla prassi dell’Organo di Vigilanza di chiedere, in sede ispettiva, il documento comprovante l’incarico (e la relativa accettazione) del medico competente. Nella lettera dovranno essere indicati: Il nominativo e i dati anagrafici e fiscali dei contraenti (datore di lavoro o dirigente e medico competente), anche l’oggetto e la durata del contratto (decorrenza e termine) La tipologia dell’impegno richiesto in riferimento alla normativa vigente. Viene suggerito anche di specificare, già nella lettera di nomina, il luogo concordato di tenuta delle cartelle sanitarie e di rischio, come indicato dall’art. 25. Chi è abilitato a svolgere il ruolo del medico competente? Per svolgere il ruolo di medico competente occorre che il medico sia in possesso di uno dei seguenti titoli: Specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica; Docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e igiene del lavoro o in clinica del lavoro; Autorizzazione di cui all’articolo 55 del D.lgs. 277/91; Specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale; Il medico competente ha l’onere di comunicare mediante autocertificazione, il possesso dei titoli e requisiti di cui sopra al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali. Medico competente sicurezza: il D.lgs. 81/08 L’art. 39 del D.lgs. 81/08 disciplina le modalità di svolgimento dell’attività di medico competente, introducendo, rispetto alla normativa previgente, interessanti elementi di novità quali: Il codice etico Il comma 1 dell’art. 39 dispone che l’attività di medico competente è svolta secondo i principi della medicina del lavoro e del codice etico della Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH). Il contratto Il comma 2 dell’art. 39 definisce la cornice contrattuale all’interno della quale possono essere svolte le funzioni di medico competente. La norma precisa che il medico competente può svolgere la propria opera in qualità di: a) dipendente o collaboratore di una struttura esterna pubblica o privata, convenzionata con l’imprenditore; b) libero professionista; c) dipendente del datore di lavoro. Il medico competente può essere dipendente di struttura pubblica? Il comma 3 dell’art. 39 conferma il divieto, solo ed esclusivamente per i dipendenti di struttura pubblica assegnati agli uffici che svolgono attività di vigilanza, di svolgere l’attività di medico competente. Le condizioni necessarie allo svolgimento dei compiti Il comma 4 dell’art. 39 prevede che il datore di lavoro assicuri al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti e ne garantisca l’autonomia. La collaborazione con medici specialisti Il comma 5 dell’art. 39 prevede che il medico competente possa avvalersi, per gli accertamenti diagnostici, della collaborazione di medici specialisti scelti in accordo con il datore di lavoro che ne sopporta gli oneri. Bene, spero come sempre di averti offerto una panoramica completa circa l’argomento trattato, se hai ancora qualche domanda non esitare a pormela, scrivimi senza problemi, io o uno dei miei collaboratori saremo più che lieti di risponderti. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Alla prossima!

  • Verifica impianto messa a terra condominio: ciò che devi sapere

    Buongiorno, caro lettore bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro, questa settimana affronteremo un argomento molto particolare e di nicchia, ma sono estremamente certo che tra i lettori qualcuno che si sia trovato difronte ad una situazione simile senz’altro c’è. È risaputo che all’interno della maggior parte dei condomini insediati nei centri cittadini, vi siano attività commerciali di tutti i tipi, come: Commercialisti Dentisti Chirurghi Notai Avvocati Psichiatri e Psicologi Bar Ristoranti La lista potrebbe allungarsi a dismisura ma penso tu abbia compreso ciò a cui mi sto riferendo. Come sempre la sicurezza delle attività commerciali per noi di TQSA è al primo posto e il rischio elettrico è sicuramente bene non sottovalutarlo, per questo motivo è corretto che tu sia a conoscenza delle particolarità relative alla verifica periodica del tuo impianto. Molto spesso quando ci rechiamo dai clienti siti all’interno di contesti condominiali, ci viene detto che alla verifica dell’impianto ci pensa il condominio, ma è coretto? Il condominio deve fare la verifica periodica dell’impianto di messa a terra? Uno dei punti molto dibattuto dell’interpretazione della legge è se anche i condomini sono obbligati alla verifica dell’impianto di terra. La risposta è affermativa, in quanto in essi si individuano ambienti di lavoro. Infatti, anche qualora non vi fossero rapporti di lavoro dipendente, (portierato, etc.) occorre comunque garantire l’incolumità di coloro che sono chiamati a vario titolo a prestare la propria attività lavorativa presso un luogo ove è installato un impianto elettrico (ditta per la manutenzione degli impianti, ditta delle pulizie, etc.). Per quale motivo è così dibattuto? In effetti bisogna dire che tale l’obbligo non è specificato esplicitamente dalla legge. Esso è sancito nelle note che il ministero delle attività produttive ha emesso nel rispondere ai quesiti posti da alcuni organismi di ispezione. Per esempio, nei protocolli 10723 e 10561 emanati dal ministero dello sviluppo economico si sancisce che nel condominio si configura, seppure temporaneamente, un luogo di lavoro (manutenzione, pulizia, etc.), per cui eventuali incidenti riconducibili a malfunzionamento dell’impianto elettrico sarebbero imputabili all’amministratore. La verifica periodica dell’impianto di terra sarebbe una prova liberatoria in tal senso. Laddove la norma non è chiara è la giurisprudenza a dare un indirizzo ovvero a creare un precedente che viene considerato completamento alla normativa cogente. Quando un luogo si può definire tale? Dal D.Lgs. 81/08 Testo Unico sulla Sicurezza, si intuisce che non è necessario che vi sia un rapporto di lavoro dipendente affinché si possa identificare un luogo di lavoro. Ne consegue anche che la dove c’è un luogo di lavoro c’è un lavoratore, che indipendentemente dal rapporto o contratto di lavoro in essere, deve essere tutelato. Soprattutto là dove l’impianto non compete a quest’ultimi nella conduzione e manutenzione. Vi è qualche decreto che mette chiarezza sulla questione? L’attuale panorama legislativo in materia di sicurezza degli impianti in ambito condominiale prevede l’adempimento degli obblighi imposti dal Decreto Legislativo 9 aprile 2008 conosciuto come 81/08, e dal Decreto del presidente della repubblica 22 ottobre 2001 n.462. vediamoli ora nel dettaglio... Il D.lgs. 81/08 stabilisce: All’art. 2, che si è presenza di un datore di lavoro qualora ci sia un qualsiasi tipo di incarico commissariato ad un lavoratore, senza distinzione sul tipo di contratto in essere tra le parti. All’art. 26, Il datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi… comma 1 a) Verifica l’idoneità tecnico professionale delle imprese o dei lavoratori autonomi b) Fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività Inoltre, al Comma 3: Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze. All’ art. 80, Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché i materiali e gli impianti elettrici messi a disposizione dei lavoratori siano progettati, costruiti, installati, utilizzati e mantenuti in modo da salvaguardare i lavoratori da tutti i rischi di natura elettrica. A tal fine il datore di lavoro esegue una valutazione dei rischi. A seguito della valutazione del rischio elettrico il datore di lavoro adotta le misure tecniche ed organizzative necessarie ad eliminare o ridurre al minimo i rischi presenti. Il D.P.R. 462/01 impone: all’ Art. 4 l’obbligatorietà delle verifiche periodiche degli impianti di messa a terra negli ambienti di lavoro: Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare regolari manutenzioni dell'impianto, nonché a far sottoporre lo stesso a verifica periodica ogni cinque anni. Ad esclusione di quelli installati in cantieri, locali adibiti ad uso medico e negli ambienti a maggior rischio incendio per i quali la periodicità di verifica è biennale. Per l'effettuazione della verifica, il datore di lavoro si rivolge all'ASL o all'ARPA o ad eventuali organismi individuati dal Ministero delle attività produttive. Il soggetto che ha eseguito la verifica periodica rilascia il relativo verbale al datore di lavoro che deve conservarlo ed esibirlo a richiesta degli organi di vigilanza. Alcune considerazioni Nel caso in cui l’Amministratore assume la veste di datore di lavoro (se il condominio occupa dei lavoratori alle proprie dirette dipendenze per lo svolgimento di servizio di portierato, di pulizia, di manutenzione degli impianti, di giardinaggio, ecc.), lo stesso è tenuto ad ottemperare a tutti gli obblighi previsti per il datore di lavoro in termini di verifiche periodiche e di valutazione dei rischi, conservando i verbali dell’attività ispettiva e il documento valutazione rischi (DVR). Il D.Lgs. 81/08 individua anche il datore di lavoro nella persona che stabilisce un rapporto di lavoro tra lui stesso e una terza persona che può essere un’impresa ovvero un lavoratore autonomo. In una situazione così descritta si attivano gli obblighi previsti dalla legislazione vigente. Il legislatore non fa chiaro riferimento alla figura dell’Amministratore come datore di lavoro, ma un testo di legge nella sua genericità non può certo contemplare tutte le svariate casistiche e specificità sulle quali esso deve essere applicato. Da ultimo occorre ricordare infatti che nel 2004 la Corte di Cassazione ha condannato un Amministratore di condominio perché a seguito di un incidente occorso al portiere non aveva ottemperato quanto previsto dal DPR 462/01; nella sentenza, la stessa Corte riporta che la decisione sarebbe stata identica anche se la persona non fosse stata alle dipendenze del condominio. (Cassazione Penale Sezione IV - Sentenza n. 11504 dell'11 marzo 2004). Si ritiene pertanto che la legislazione vigente sia orientata a coinvolgere in materia di sicurezza anche l’Amministratore di condominio, in quanto ha la responsabilità dell'organizzazione stessa ed esercita i poteri decisionali e di spesa. Se ho un negozio o un ufficio all’interno di un condominio devo denunciare l’impianto ed effettuare le relative verifiche periodiche? Partendo dal presupposto che c’è un datore di lavoro, un lavoratore ed un luogo di lavoro (ufficio/negozio) esistono tutti i presupposti perché venga denunciato l’impianto e le verifiche periodiche a cura del datore di lavoro dell’impresa e non del condominio. Cosa comprende l’impianto di terra? L’impianto di terra comprende: Il dispersore (condominiale) Il collettore (condominiale) Il conduttore di terra che collega il dispersore al collettore (condominiale) Il conduttore di protezione che collega il conduttore all’impianto di terra del negozio/ufficio (di proprietà dell’impresa anche se transita nel condominio) I conduttori di protezione di tutte le prese a spina e utilizzatori del negozio/ufficio (di proprietà dell’impresa) I collegamenti equipotenziali del negozio/ufficio (di proprietà dell’impresa). In conclusione Ci troviamo di fronte situazioni impiantistiche obsolete, con evidenti rischi elettrici, spesso riscontrate dai nostri tecnici durante le attività di verifica, che evidenziano l’opportunità di intervenire in materia di sicurezza, a prescindere dalla nuova legislazione. L’invito è pertanto a vivere la verifica non come attività ispettiva subita, ma come opportunità da cogliere subito per: Mettere in sicurezza gli impianti. Sopperire alla manutenzione spesso inadeguata. Mantenere una traccia documentata delle verifiche, che non sostituisce la necessità della conservazione dei documenti dell’impianto (progetto, dichiarazioni di conformità, etc), ma evidenzia la buona volontà nel voler ben conservare gli impianti. Ricostruire un “punto zero” degli impianti “fuori controllo” (analisi situazioni critiche, sistemazione documenti, confronto tecnico con il Verificatore). Avere massima tutela in caso di infortunio. Avere tranquillità e garanzia di adempiere alle disposizioni legislative vigenti. Spero come sempre che l’argomento sia stato di tuo interesse. Se ti sono sorti dei dubbi non esitare a contattarmi, sarò più che lieto di fugare ogni dubbio. Buona giornata!

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