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  • Privacy e lavoro: Come utilizzare i dati dei dipendenti

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Nell’ultimo decennio lo sviluppo tecnologico ha fatto passi che fino a pochi anni fa sembravano impensabili cambiando gli aspetti legati al lavoro e alla privacy. Sempre più strumenti ideati e realizzati per un fine, si sono rivelati invece utilissimi ed utilizzabili anche per finalità differenti e questo principalmente grazie all’interconnessione e alla così detta Internet Of Things (l’internet delle cose). Proprio questa è stata la ragione per la quale l’originario testo di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che vietava l’uso “di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” si è rivelato nella realtà dei fatti inadatto stante che, l’obiettivo del controllo, poteva esser perseguito attraverso altri ed indiretti strumenti. Si pensi a tutti quegli apparecchi e/o dispositivi indispensabili al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa e messi a sua disposizione e che agevolmente potrebbero essere utilizzati appunto per altre finalità. A titolo di esempio si possono citare i GPS installati sui veicoli, i software sui dispositivi mobili aziendali che potrebbero permettere di verificare lo stato di libero od occupato, così come ogni altro strumento informatico (esempio pc) messo a disposizione del lavoratore oltre, ovviamente, alla posta elettronica. Insomma, se tempo indietro gli strumenti di controllo del lavoratore erano più facilmente identificabili, oggi la lista è sicuramente più lunga e soprattutto meno rigida. Senza addentrarsi nel dettaglio delle modifiche normative e quindi nella nuova “formulazione” dello Statuto dei Lavoratori (modificato dal D.Lgs 151/2015 c.d. Jobs Act) e volendo provare a fornire una quanto più chiara e allo stesso modo semplice linea guida su cosa si può fare o cosa no, oggi per poter procedere all’ installazione di strumenti di controllo (videosorveglianza) è necessario che siano presenti, oltre ad un accordo sindacale o – in sua assenza – una richiesta all’Ispettorato del lavoro, una delle seguenti ragioni: Esigenze organizzative e/o produttive; Questioni relative alla Sicurezza sul Lavoro; Tutela del Patrimonio Aziendale; La portata normativa risulta però limitata stante la sua non applicazione agli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e agli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” che rimangono pertanto svincolati da tali “ragioni”. Tale limite applicativo non può certo intendersi come una liberalizzazione del controllo da parte del datore di lavoro che potrà utilizzare tutte le informazioni raccolte “a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto della normativa privacy vigente”. Rendere consapevole il dipendente L’attuale impostazione normativa quindi si occupa principalmente di rafforzare i diritti conoscitivi del lavoratore soggetto a controllo tecnologico. La mancanza di informazione renderà quindi inutilizzabili i dati raccolti ai fini del rapporto di lavoro. Dovrà esser cura di ogni datore di lavoro, prima di installare impianti di videosorveglianza, verificare la ricorrenza di uno dei tre presupposti indicati oltre alla necessità di stipulare un accordo sindacale o, ove non possibile, procedere alla richiesta per il tramite dell’ispettorato del lavoro. Nel caso invece in cui il datore di lavoro voglia utilizzare le informazioni ricevute attraverso “altri strumenti” per esigenze sul “rapporto di lavoro” potrà farlo solo dopo aver dato pronta e chiara informativa agli stessi secondo quanto disciplinato dall’art. 13 del Reg. Europeo 679/2016. Resta fermo che l’informazione ottenuta dovrà essere utilizzata in maniera “lecita” (es. non discriminatoria). Per dare l’idea della portata della normativa e per evidenziare una sua recente applicazione, merita ricordare la recente pronuncia di sicuro interesse del Tribunale di Bologna che, con ordinanza del 31.12.2020, ha ritenuto la piattaforma Deliveroo indirettamente discriminatoria dei lavoratori stante che l’algoritmo utilizzato finiva per valutare le prestazioni dei lavoratori classificandoli in base al rating di affidabilità e partecipazione per dare così la precedenza sulla scelta ai “rider” migliori. (di fatto uno strumento di controllo indiretto della prestazione). L’algoritmo avrebbe infatti effettuato una automatica valutazione della prestazione del lavoratore senza distinguere tra “assenze giustificate” ed altre, estromettendo dalla prestazione, e quindi emarginando in modo generalizzato, i riders che non potevano prendere in carico determinati ordini e che per questioni varie non si adattavano alle logiche dello strumento. Il Tribunale di Bologna ha ritenuto – tra l’altro – che l’algoritmo determinasse una violazione del principio di uguaglianza sostanziale. La normativa Per concludere, sugli strumenti di controllo (diretti e indiretti) e sugli obblighi datoriali è necessario evidenziare come ogni trattamento che possa comportare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone necessiti della così detta DPIA (valutazione di impatto, regolata dall’art. 35 del Regolamento UE 2016/679) considerata dal Garante come l’unico strumento idoneo a comprendere i rischi per i diritti e le libertà degli interessati in conseguenza all’utilizzo di uno strumento. In definitiva: l’ampliarsi degli strumenti utilizzabili dal datore di lavoro accresce, in proporzione, le cautele che lo stesso deve avere nell’utilizzare i più differenti strumenti. Ogni strumento che permetta di ottenere informazioni dovrà essere oggetto di una valutazione preliminare sulla liceità del trattamento stesso anche per distinguerlo, nel caso, tra strumento di controllo e no. Una volta verificata la liceità e individuata la finalità dello sesso, occorrerà procedere alle necessarie autorizzazioni ed informative. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Modello Organizzativo 231:cos'è e come si compone

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi mi piacerebbe molto parlarti di un Modello organizzativo e di Gestione aziendale. Altro non è che un insieme di protocolli che regolano e definiscono la struttura aziendale e la gestione dei suoi processi sensibili, che se correttamente applicato, riduce notevolmente il rischio di commissione di illeciti penali. In altre parole, un Modello correttamente elaborato, adottato e aggiornato, utile ad esimere una società della propria responsabilità amministrativa dipendente da reato. Scopriamo in questo articolo cos’è il Modello organizzativo 231, a cosa serve e se è obbligatorio. COSA SI INTENDE PER MODELLO ORGANIZZATIVO AI SENSI DEL D. LGS. 231/01 (MODELLO 231)? Un Modello di Organizzazione e Gestione (MOG) esimente dalle responsabilità previste dal D. Lgs. 231/01 dovrà rispondere: ai requisiti previsti dall’art. 6 comma 2 dello stesso decreto nonché, qualora sia prevedibile il rischio di reato connesso alle violazioni di norme antinfortunistiche, anche ai requisiti previsti dall’art. 30 del D. Lgs. 81/2008. L’art. 6 del D. Lgs. 231/01 prevede che i Modelli Organizzativi 231 devono rispondere alle seguenti esigenze: a. individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; b. prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire; c. individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; d. prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli; e. introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. Pertanto, un Modello 231 (MOG) dovrà contenere: un’analisi del rischio di reato, ossia una identificazione dei reati che potrebbero essere commessi, delle modalità e delle aree aziendali nei quali tali reati potrebbero avvenire protocolli per il governo dei processi, cioè l’individuazione delle modalità operative per la programmazione e il compimento dei processi aziendali, finalizzati a prevenire la commissione dei reati individuati nella precedente analisi degli obblighi di informazione nei confronti dell’Organismo di Vigilanza (OdV); un sistema disciplinare che preveda sanzioni per ogni soggetto coinvolto nei processi aziendali a rischio di reato. È necessario sottolineare che il Modello 231 (MOG) per avere efficacia esimente, non solo deve essere idoneo “sulla carta”, ma deve essere efficacemente attuato, ossia deve avere tutti i presupposti per impedire il reato: sia in termini di individuazione astratta delle misure tese a prevenire il reato sia in termini di applicazione effettiva di tali misure. Inoltre, va evidenziato che la responsabilità dell’ente non trova fondamento solo e semplicemente nel non aver saputo effettivamente impedire la commissione del reato, dato che, se così fosse, il Modello Organizzativo 231 (MOG) adottato risulterebbe automaticamente inadeguato, a prescindere da qualsiasi valutazione sulla effettiva condotta delle persone che ne hanno violato i protocolli. Ai fini dell’effettiva applicazione del Modello 231, l’Organismo di Vigilanza (OdV) costituisce un elemento fondamentale nei modelli di gestione e nel garantire, con la sua attività di controllo, l’efficace attuazione degli stessi. In sostanza, ai fini della responsabilità dell’ente è fondamentale prendere in considerazione i comportamenti tenuti dai soggetti che hanno commesso i reati, in particolare qualora questi abbiano agito “fraudolentemente” con l’intento di aggirare i sistemi di controllo del Modello 231, tra i quali anche quelli a carico dell’Organismo di Vigilanza (OdV). In tal caso, infatti, un Modello di Organizzazione e Gestione (MOG) pure adeguato ed efficace, può fallire nell’impedire la commissione di un reato. Dunque, la natura fraudolenta della condotta del soggetto costituisce l’indice rivelatore, a posteriori, della validità del modello: solo una condotta fraudolenta può, forzando ed aggirando le “misure di sicurezza”, consentire la commissione di un reato in un’organizzazione “protetta” da un Modello 231 (MOG) efficace. MODELLI ORGANIZZATIVI 231: COSA PREVEDE IL D. LGS. 81/08? Il D. Lgs. 81/2008 ha richiamato la possibilità di istituire un Modello Organizzativo 231 (MOG), previsto dal D. Lgs. 231/01 ed idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa dell’Ente, dando ulteriori ed esplicite indicazioni sui connotati di tale modello nell’art. 30 dello stesso Testo Unico Sicurezza sul Lavoro. Sempre l’art. 30 del D. Lgs. 81/08 precisa che i Modelli Organizzativi 231 definiti conformemente alle: Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 British Standard OHSAS 18001:2007, quest’ultima costituente al momento della scrittura del D. Lgs. 81/08 l’unico riferimento normativo sui sistemi di gestione della sicurezza “certificabili” da un ente accreditato, ora sostituita dalla norma UNI ISO 45001 si presumono conformi ai requisiti sopra citati per le parti corrispondenti: tali norme, infatti, non sono sovrapponibili al modello richiesto dal D. Lgs. 231/01. In sostanza, un Modello Organizzativo 231 che voglia essere esimente anche dalle sanzioni applicate per la commissione dei reati di: omicidio colposo o lesioni personali colpose in violazione delle norme antinfortunistiche, dovrà rispettare i requisiti previsti dal: D. Lgs. 231/01 e dall’art. 30 del D. Lgs. 81/2008 I due riferimenti di legge non sono tra loro alternativi, così come l’adozione di un Sistema di Gestione della Sicurezza conforme alla norma UNI ISO 45001 non sostituisce il Modello 231 ma ne può costituire un elemento fondamentale, in particolare per rispondere ai requisiti previsti dall’art. 30 del Testo Unico Sicurezza sul Lavoro. IL MODELLO ORGANIZZATIVO 231 È OBBLIGATORIO? La disciplina in materia di responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni non prevede alcuna obbligatorietà del modello 231. Parliamo infatti di un modello di organizzazione e gestione, che permette alle imprese di ridurre il rischio di essere chiamate a rispondere per uno dei reati sanzionati dal Decreto 231. Dunque, tutte le aziende esposte al rischio di contestazione delle violazioni citate nella norma possono sottoscrivere questo modello, anche le piccole e medie imprese. Alcune legislazioni regionali lo prevedono come requisito preliminare per ottenere l’accreditamento in settori specifici. IL MODELLO 231: COSA DEVE FARE L’AZIENDA PER EVITARE L’APPLICAZIONE DELLE SANZIONI PREVISTE DAL D. LGS. 231/01? L’art. 6 del D. Lgs. 231/01 stabilisce che l’Ente possa sottrarsi da responsabilità, qualora dimostri: di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto/reato “modelli di organizzazione e di gestione (abbreviati dall’acronimo MOG o dal termine “Modello Organizzativo 231” o, ancora più brevemente “Modello 231”) idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”; di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento, sull’efficacia e sull’osservanza del già menzionato modello e sull’aggiornamento dello stesso, ad un “organismo di controllo interno all’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”, usualmente denominato Organismo di Vigilanza, ossia OdV. L'art. 30 del D.lgs. 81/2008 prevede la facoltà di applicare un modello di organizzazione e di gestione (MOG), così come previsto dal D.lgs. 231/2001, idoneo a rendere esente l’Ente adottante dalla responsabilità amministrativa. In particolare, detto modello organizzativo deve essere adottato ed efficacemente attuato, affinché garantisca l’adempimento dei seguenti obblighi giuridici diretti: al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; all’attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; all’attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; all’attività di sorveglianza sanitaria; all’attività di informazione e formazione dei lavoratori; all’attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; all’acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate. Pertanto, il Modello Organizzativo 231 rappresenta uno strumento fondamentale per giungere all’esenzione di responsabilità dell’ente previste dal D. Lgs. 231/01. L’ideazione, l’applicazione e l’efficace attuazione di un Modello Organizzativo ex D.Lgs. 231/01 rappresenta la prova della sussistenza di un’adeguata organizzazione aziendale, tale da prevedere procedure idonee a prevenire la commissione dei reati presupposto, espressamente previsti dalla normativa. In sostanza, ai fini della responsabilità dell'ente prevista dal D. Lgs. 231/01, non è sufficiente che il reato sia stato commesso nell’interesse ed a vantaggio dell’ente, ma è necessario che esso derivi da una “colpa organizzativa”, cioè dall’assenza di un sistema di organizzazione aziendale finalizzato a prevenire i reati (il Modello Organizzativo 231), quando non costituisca addirittura l’espressione di un preciso intento di politica aziendale. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Certificazione EMAS: cos'è, come ottenerla e vantaggi

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi ti parlerò della certificazione EMAS. Uno dei trend sicuramente in crescita in questi ultimi anni che riguarda aziende, enti pubblici e privati, è quello di cercare di diminuire notevolmente l’impatto delle nostre attività sul pianeta. Pochi mesi fa, per motivi noti a tutti, ci siamo visti aumentare in modo consistente il costo delle utenze, ciò ci sta sicuramente penalizzando a livello economico, ma ci sta altresì permettendo di avere un occhio di riguardo nei confronti del pianeta, andando a diminuire notevolmente gli inutili sprechi. Se anche tu credi che la tua azienda possa pensare più in verde, non potrai che prendere in considerazione l’argomento di cui ti voglio parlare oggi, vediamo di cosa si tratta. Oggi voglio guidarti alla scoperta della registrazione EMAS (acronimo di Eco-Management and Audit Scheme) la stessa, indica la conformità di un’impresa o di un sito a quanto disposto dal Regolamento Europeo n.1221/2009. Questo regolamento mira a favorire una gestione più razionale degli aspetti ambientali delle organizzazioni sulla base non solo del rispetto dei limiti di legge, ma anche: del continuo miglioramento delle proprie prestazioni ambientali; dell’attiva partecipazione dei dipendenti; della trasparenza con le istituzioni e il pubblico. Quali soggetti possono richiedere la registrazione EMAS? L’EMAS è uno strumento a base volontaria al quale possono aderire le organizzazioni (sia aziende sia enti pubblici) e i siti che intendono valutare e implementare le proprie prestazioni ambientali e fornire al pubblico informazioni in merito ad esse. A che cosa serve la registrazione EMAS? Ottenere la registrazione EMAS e, quindi, la possibilità di utilizzarne il logo che attesta l’adesione ai principi espressi nel Regolamento ed è indice dello standard di qualità e dell’impegno in materia ambientale da parte dell’impresa o del sito registrato. Nell’ambito degli appalti pubblici e delle fideiussioni necessarie a essi, inoltre, la certificazione EMAS può portare a delle riduzioni dei costi (anche del 30%), se ciò è previsto nel bando. Chi rilascia la registrazione EMAS? Ai sensi del Regolamento n.1221/2009 ogni Stato Membro dell’Unione Europea designa un organismo competente al rilascio della registrazione detto competent body. In Italia, il rilascio della registrazione EMAS è affidato al Comitato Interministeriale per l’Ecolabel e l’Ecoaudit il quale si avvale della collaborazione dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e delle varie Agenzie Regionali (ARPA) e Provinciali (APPA) per la Protezione dell’Ambiente. Come si ottiene la registrazione EMAS? Per ottenere la registrazione un sito o un’organizzazione deve effettuare diversi passaggi, vediamoli si seguito. 1. Stabilire la politica ambientale Per aderire all’EMAS, un’organizzazione deve, innanzitutto, procedere ad un’analisi ambientale delle proprie attività, in modo tale da valutarne l’impatto ambientale. Sulla base di tale analisi, l’organizzazione interessata deve stabilire la propria politica ambientale. Quest’ultima, normalmente delineata dai vertici aziendali, non è altro che un documento con il quale l’organizzazione specifica impegni, obiettivi e azioni che intende perseguire al fine di migliorare le proprie prestazioni ambientali. 2. Elaborare un programma ambientale Stabilita la propria politica ambientale, l’organizzazione deve elaborare un apposito programma ambientale, contenente le misure che devono essere adottate allo scopo di raggiungere i target fissati con la politica ambientale. 3. Elaborare un sistema di gestione ambientale (SGA) Poi deve elaborare un proprio sistema di gestione ambientale (SGA), ossia un insieme di procedure e prescrizioni che consentono di: Evidenziare gli aspetti ambientali interessati dalle diverse fasi produttive; valutare gli impatti ambientali di queste ultime; definirne le modalità di controllo e verifica e, quindi, di stabilire quali azioni intraprendere al fine di garantire il miglioramento continuo delle proprie prestazioni ambientali. Lo scopo del SGA è quindi quello di fare in modo che la qualità del prodotto e il processo produttivo siano rispettosi dell’ambiente circostante. 4. Produrre una Dichiarazione Ambientale da far validare da un verificatore accreditato A questo punto, l’organizzazione interessata deve procedere sistematicamente e periodicamente ad una verifica obiettiva e documentata (il cosiddetto auditing) delle proprie prestazioni ambientali e, quindi, dell’efficienza del SGA di cui si è dotata. Inoltre, deve rilasciare una dichiarazione ambientale da diffondere pubblicamente che includa: La descrizione degli aspetti ambientali dell’organizzazione stessa e delle sue prestazioni ambientali; il documento di politica ambientale; l’enunciazione degli obiettivi e dei target ambientali dell’organizzazione; la descrizione del SGA. La Dichiarazione così predisposta deve essere sottoposta alla verifica di un apposito verificatore ambientale accreditato indipendente e, in caso di esito positivo della stessa, è da quest’ultimo convalidata. Infine, grazie alla dichiarazione ambientale convalidata, l’organizzazione può richiedere al Comitato Ecolabel-Ecoaudit di essere registrata nel registro EMAS dell’UE e, una volta registrata, può utilizzare il logo EMAS. Per i più interessati, a questo link si può accedere alla versione integrale della procedura per la registrazione delle organizzazioni aventi sede e operanti nel territorio italiano e in paesi extra UE ai sensi del regolamento ce 1221/2009 del parlamento europeo e del consiglio del 25 novembre 2009. Quanto dura la registrazione EMAS? La registrazione EMAS è valida per tre anni, al termine dei quali è possibile procedere al rinnovo seguendo l’iter della prima registrazione e, quindi, redigendo una nuova Dichiarazione Ambientale i cui dati, in ogni caso, devono essere aggiornati annualmente. Quali sono le differenze tra la registrazione EMAS e la Certificazione ISO 14001? La certificazione ISO 14001 ha valenza mondiale mentre la registrazione EMAS è valida nel territorio dell’UE, anche se molte organizzazioni internazionali ne riconoscono la validità. Inoltre, la registrazione EMAS è rilasciata da un organismo pubblico mentre la certificazione ISO 14001 ha natura privatistica. La certificazione ISO 14001 poi, può essere richiesta solamente dalle aziende, l’EMAS, invece, è accessibile anche ai siti. Infine, solo l’EMAS richiede la redazione della Dichiarazione Ambientale pubblica, la quale non è invece necessaria ai fini dell’ottenimento della certificazione ISO 14001. Quali sono i vantaggi della registrazione EMAS? L'adesione ad EMAS consente: la riorganizzazione interna e conseguente crescita dell'efficienza; la riduzione dei costi a seguito di una razionalizzazione nell'uso delle risorse e nell'adozione di tecnologie più pulite; la crescita della motivazione dei dipendenti e della loro partecipazione, con conseguente riduzione delle conflittualità interne; la creazione di un rapporto di maggiore fiducia con gli organismi preposti al controllo ambientale e con quelli che rilasciano le autorizzazioni; la riduzione delle probabilità di eventi che possono arrecare danno all'ambiente; maggiori garanzie in termini di certezza del rispetto delle normative ambientali; la crescita delle conoscenze tecnico-scientifiche e loro uso per il miglioramento continuo delle prestazioni ambientale; la riduzione del carico burocratico (corsie preferenziali) per le organizzazioni aderenti ad EMAS; maggiori garanzie di accesso ai finanziamenti per le piccole imprese; l'incremento del valore patrimoniale per la garanzia di una corretta gestione ambientale che ne esalta la valutazione. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Consulente ADR: chi è, cosa fa e come svolgere l'esame?

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi voglio parlarti di una figura che da una ventina d’anni a questa parte sta man mano acquisendo importanza all’interno delle aziende che trasportano merci definite pericolose. La figura del Consulente ADR, detto più propriamente Consulente per la sicurezza ai trasporti di merci pericolose o DGSA (Dangerous Goods Safety Advisor) nell’acronimo inglese, è stata introdotta nel nostro ordinamento dal Decreto Legislativo 04/02/2000 nr. 40 (Gazzetta Ufficiale numero 52 del 03/03/2000) in recepimento della direttiva europea 96/35/CE del 3 giugno 1996 relativa alla designazione e alla qualificazione professionale dei consulenti per la sicurezza dei trasporti di merci pericolose su strada, per ferrovia o per via navigabile. Quella del DGSA è, dunque, una professione giovane! Nel Marzo del 2010 questo Decreto è stato poi parzialmente abrogato e sostituito dal Decreto Legislativo 35/2010 del quale, ad oggi, non risultano in parte ancora emanati i Decreti attuativi. La vecchia norma rimane, dunque, ancora in vigore per quanto non in contrasto con il nuovo testo. Chi è il Consulente ADR? Le norme sottolineano come questa sia una figura di "garanzia" per la sicurezza in azienda in merito alla gestione dei trasporti di merci pericolose. Difatti il DGSA non rappresenta un mero obbligo giuridico, ma un concreto collaboratore dei vertici aziendali occupandosi di elaborare adeguate procedure, garantire la necessaria formazione a tutti coloro che all’interno dell’azienda si occupano di merci pericolose e monitorare i processi aziendali affinché la sicurezza sia sempre al primo posto! Cosa fa il consulente ADR? Negli ultimi anni la figura del DGSA è più presente nelle nostre aziende grazie ad una maggior sensibilità sul tema acquisita dal mondo delle imprese e grazie ad alcune certificazioni che impongono il DGSA come elemento ineludibile, ma si può fare molto di più…! Mancano i controlli! La crisi subita, la disinformazione, la cronica mancanza di cultura della sicurezza e la colpevole mancanza di controlli hanno contrastato in passato e contrastano in parte ancora oggi, la diffusione capillare di questa figura nelle aziende italiane. Esiste un elenco dei consulenti ADR? Purtroppo, allo stato attuale, questa professione non rientra tra quelle cosiddette riconosciute ed è priva di albo professionale. Difficile, quindi, fare una stima esatta del numero di consulenti presenti sul territorio nazionale. Esiste però dal 2004 un "registro" volontario organizzato e gestito da Orange Project, organizzazione che da sempre si occupa di diffondere in Italia la cultura della sicurezza nel campo dei trasporti di merci pericolose, al quale diversi Consulenti sono iscritti, ma il numero delle iscrizioni fa sì che il campione non sia molto indicativo. In definitiva, c’è molto lavoro da fare ancora! Consulente ADR: la normativa Come già precisato in premessa, la norma attuale italiana di riferimento in materia ADR è il Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, nr. 35 che ha recepito e dato attuazione alla Direttiva quadro 2008/68/CE relativa al trasporto interno di merci pericolose. ADR: a quali trasporti si applica? In base all’art.1 del Decreto: si applica al trasporto di merci pericolose effettuato su strada, per ferrovia o per via navigabile interna, sia all’interno dello Stato nazionale che tra gli Stati della Comunità europea, alle operazioni di carico e scarico, al trasferimento da un modo di trasporto ad un altro ed alle soste rese necessarie dalle condizioni di trasporto. Non si applica al trasporto di merci pericolose ciò che è effettuato: mediante veicoli, vagoni o unità navali che appartengono alle forze armate o che si trovano sotto la responsabilità di queste ultime ovvero mediante navi in servizio governativo non commerciale; mediante unità navali adibite alla navigazione marittima su vie navigabili marittime che si estendono nelle vie navigabili interne; mediante traghetti che effettuano soltanto l’attraversamento di una via navigabile interna o di un porto; oppure interamente all’interno del perimetro di un’area chiusa. Consulente ADR: in quali settori opera? Dunque, le norme ADR e quelle sul consulente sono applicabili non solo alle aziende che trasportano merci pericolose via strada/ferrovia/vie navigabili interne, ma anche a quelle che effettuano carico/scarico e altre operazioni accessorie al trasporto (imballaggio, ndr). Con ADR 2019[8], fu introdotta una grossa novità in tema DGSA estendendo il campo di applicazione, per quanto riguarda l’obbligo di nomina, anche alla figura del "puro" speditore fino ad oggi non considerata. “Ogni impresa, la cui attività comporta la spedizione o il trasporto di merci pericolose per strada, oppure le operazioni connesse di imballaggio, di carico, di riempimento o di scarico, designa uno o più consulenti per la sicurezza dei trasporti di merci pericolose, in seguito denominati «consulenti», incaricati di facilitare l’opera di prevenzione dei rischi per le persone, per i beni o per l’ambiente inerenti a tali attività.” (Cap. 1.8.3.1 – ADR 2019). Nomina del Consulente ADR o DGSA Infine, sempre in tema di nomina DGSA, sono fatti salvi i casi d’esenzione fissati dal Decreto Ministeriale Trasporti 04.07.2000 così riassunti: trasporti esclusivi in esenzione parziale (1.1.3.6 adr) o totale (3.4 adr); trasporti "occasionali" di merci pericolose in ambito esclusivo nazionale con un grado di pericolosità e inquinamento minimi (Gruppo d’imballaggio III) con quantitativi non superiori a 180 ton/anno con un numero max. di operazioni non superiori a 3/mese e 24/anno). La circolare Ministeriale Trasporti A26/2000/MOT del 14 novembre 2000 (art. 5) aggiunge all’elenco esenzioni anche: spedizioni di merci pericolose ricevute da imprese individuabili come destinatari finali del trasporto che utilizzano completamente le merci all’interno del ciclo produttivo aziendale. I requisiti del consulente DGSA Per diventare consulente ADR servono passione, studio, competenza ed esperienza sul campo come in tutte le professioni! Come diventare Consulente ADR? Premesso che l’incarico può venire assunto sia da personale interno all’azienda, sia da un libero professionista, il candidato prescelto deve essere in possesso almeno di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado ed è evidente che, visto le materie in gioco e la delicatezza del ruolo, egli non possa prescindere da una preparazione di base di tipo scientifico e giuridica. Certificato ADR: dove è valido? Il certificato è valido in ogni paese facente parte dell’Unione Europea. Chi rilascia il certificato di consulente ADR? Il certificato di formazione professionale di cui all’ADR, RID, ADN è rilasciato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – Dipartimento per i trasporti, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici, a seguito del superamento dell’esame. Esami per consulenti DGSA L’esame per il conseguimento del certificato di formazione professionale di consulente per la sicurezza del trasporto si svolge secondo le modalità previste dal capitolo 1.8 dell’ADR, del RID e dell’ADN. Il futuro DGSA deve poi sostenere un esame presso uno degli uffici provinciali del ministero dei Trasporti (ex M.C.T.C), a seguito del quale viene rilasciato un certificato attestante l’idoneità del candidato a svolgere le mansioni del consulente (Certificato di formazione professionale ai sensi della Direttiva 96/35/CE). Quanto dura il certificato professionale ADR? Il certificato ha una validità di cinque anni, dopo i quali va rinnovato sempre a mezzo esame. ESAME per consulenti ADR: come si svolge? Le regole di svolgimento dell’esame sono poste all’interno del DM TRASPORTI 29 dicembre 2010. L’esame iniziale per il conseguimento della certificazione avviene in forma scritta ed è costituito da questionari con domande a scelta multipla riferiti alla/e modalità e specializzazione/i richiesta/i e dallo studio di un caso: è prassi consolidata e adottata da tutte le commissioni proporre ai candidati questionari a quiz; al candidato viene richiesta l’indicazione di “Vero” o “Falso” su tutte le affermazioni contenute nella scheda composta da: 20 domande, per un totale di 60 risposte (domande base) (almeno 48 risposte esatte per superare l’esame); – 10 domande, per un totale di 30 risposte (domande legate ad ogni singola modalità di trasporto richiesta) (almeno 24 risposte esatte per superare l’esame); 10 domande, per un totale di 30 risposte (domande legate ad ogni singola specializzazione richiesta) (almeno 24 risposte esatte per superare l’esame); Viene poi proposto uno studio la cui articolazione, scelta dalla commissione, è tesa a verificare la capacità del candidato di svolgere le mansioni di consulente per la sicurezza. I candidati che sostengono l’esame per un’unica specializzazione svolgono lo “studio del caso” nell’adattamento relativo alla specializzazione prescelta; i candidati che, invece, sostengono l’esame per più specializzazioni svolgono lo studio nell’adattamento relativo ad una di tali specializzazioni a scelta della commissione esaminatrice. Nel caso del rinnovo della certificazione, lo studio del caso non deve essere svolto. Nomina del consulente ADR. Cosa deve fare l’azienda? L’Art. 11 del Decreto Legislativo 35/2010, spiega come l’azienda deve comportarsi per la nomina del Consulente. Chi nomina il consulente ADR? Lo nomina il legale rappresentante dell’impresa la cui attività comporta trasporti di merci pericolose, oppure operazioni di imballaggio, di carico, di riempimento o di scarico, connesse a tali trasporti. Consulente DGSA: inserimento in azienda Entro quindici giorni dalla nomina, il legale rappresentante comunica le complete generalità del consulente nominato all’ufficio periferico del Dipartimento per il trasporto, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti competente in relazione al luogo in cui ha sede l’impresa. Consulente ADR: l’obbligo di relazione Entro sessanta giorni dalla nomina, il consulente verificate le prassi e le procedure concernenti l’attività dell’impresa presso la quale opera, redige una relazione nella quale, per ciascuna operazione relativa all’attività di impresa, indica le eventuali modifiche procedurali ovvero strutturali necessarie per l’osservanza delle norme in materia di trasporto, carico e scarico di merci pericolose, nonché per lo svolgimento dell’attività dell’impresa in condizioni ottimali di sicurezza. Relazione ADR: quando redigerla? La relazione è redatta annualmente e, comunque, ogni qualvolta intervengano eventi modificativi delle prassi e procedure poste alla base della relazione stessa, ovvero delle norme in materia di trasporto, carico e scarico di merci pericolose, ed è consegnata al legale rappresentante dell’impresa. Il legale rappresentante conserva le relazioni per cinque anni. Relazione di incidente: quando trasmetterla? La relazione di incidente redatta dal consulente ai sensi dell’ADR, RID, ADN e’ trasmessa entro quarantacinque giorni dal verificarsi dell’incidente medesimo al legale rappresentante dell’impresa e per il tramite degli uffici periferici del Dipartimento per il trasporto, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti al medesimo Dipartimento ed al Ministero dell’interno – Dipartimento dei Vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile. I compiti del consulente Il D.Lgs. 35/2010 fa esplicitamente riferimento (art. 3) al manuale ADR dove sono contenute, tra l’altro, le norme riguardanti il consulente ADR (Capitolo 1.8.3.3. – ADR 2019): Sotto la responsabilità del capo dell’impresa, funzione essenziale del consulente è ricercare tutti i mezzi e promuovere ogni azione, nei limiti delle attività in questione dell’impresa, per facilitare lo svolgimento di tali attività nel rispetto delle disposizioni applicabili e in condizioni ottimali di sicurezza. Quali sono le funzioni del Consulente ADR? Le sue funzioni, da adattare alle attività dell’impresa, sono in particolare le seguenti: verificare l’osservanza delle disposizioni in materia di trasporto di merci pericolose; consigliare l’impresa nelle operazioni riguardanti il trasporto di merci pericolose; redigere una relazione annuale, (La stessa va consegnata al capo dell’impresa entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello di riferimento) destinata alla direzione dell’impresa o eventualmente a un’autorità pubblica locale, sulle attività dell’impresa per quanto concerne il trasporto di merci pericolose. La relazione è conservata per cinque anni e, su richiesta, messa a disposizione delle autorità nazionali. Quali sono i compiti del consulente ADR? I compiti del consulente comprendono, inoltre, in particolare l’esame delle seguenti prassi e procedure concernenti le attività in questione dell’impresa: le procedure volte a far rispettare le materia prescrizioni relative all’identificazione delle merci pericolose trasportate; le prassi dell’impresa per quanto concerne la valutazione, all’atto dell’acquisto dei mezzi di trasporto, di qualsiasi particolare requisito relativo alle merci pericolose trasportate; le procedure di verifica delle attrezzature utilizzate per il trasporto di merci pericolose o per le operazioni di carico o scarico; il possesso, da parte del personale interessato dell’impresa, di un’adeguata formazione e la registrazione di tale formazione; l’applicazione di procedure d’ emergenza adeguate agli eventuali incidenti o eventi imprevisti che possano pregiudicare la sicurezza durante il trasporto di merci pericolose o le operazioni di carico o scarico; l’analisi e, se necessario, la redazione di relazioni sugli incidenti, gli eventi imprevisti o le infrazioni gravi costatate nel corso del trasporto delle merci pericolose o durante le operazioni di carico o scarico; l’attuazione di misure appropriate per evitare il ripetersi d’incidenti, eventi imprevisti o infrazioni gravi; la presa in conto delle disposizioni legislative e dei requisiti specifici relativi al trasporto di merci pericolose, per quanto concerne la scelta e l’utilizzo di subfornitori o altri operatori; la verifica che il personale incaricato del trasporto di merci pericolose, oppure del carico o dello scarico di tali merci, abbia procedure operative e istruzioni dettagliate; l’introduzione di misure di sensibilizzazione ai rischi connessi al trasporto di merci pericolose o al carico o scarico di tali merci; l’attuazione di procedure di verifica volte a garantire la presenza, a bordo dei mezzi di trasporto, dei documenti e delle attrezzature di sicurezza che devono accompagnare il trasporto e la loro conformità di tali documenti e attrezzature alle regolamentazioni; l’attuazione di procedure di verifica dell’osservanza delle disposizioni concernenti le operazioni di carico e scarico; l’esistenza del piano di security previsto al 1.10.3. Consulente ADR: cosa fa in azienda? Il DGSA non è un “nemico” dal quale fuggire! Egli favorisce l’ottimizzazione dei processi, agevolandoli e non rallentandoli. Possiede inoltre le capacità e gli strumenti per individuare ed evidenziare a priori i possibili rischi di incidente, e per valutare la serietà delle conseguenze. E’ in grado di proporre le soluzioni ideali per mitigare i rischi con interventi concreti e mirati dal punto di vista tecnico e gestionale. Il suo operato in azienda favorisce, inoltre, la gestione regolare dei trasporti, contribuendo a scongiurare le eventuali sanzioni previste in caso di inadempimenti. Egli si pone come il “garante” della formazione in azienda. Il contributo del DGSA si esplicita infine anche dal punto di vista formale e burocratico, in relazione al rispetto di tutti gli adempimenti e al mantenimento delle relazioni con le pubbliche autorità. Le responsabilità dell’azienda e del consulente Le responsabilità sono importanti per tutti. L’articolo 12 del Decreto Legislativo 35/2010 fissa le sanzioni previste per la mancata osservanza delle disposizioni viste finora, con sanzioni amministrative e pecuniarie che vanno dai 2000 sino ai 24000 euro in base all’infrazione commessa. Sanzioni per il consulente ADR Le sanzioni appena viste non sembrano particolarmente pesanti anche perché di natura esclusiva amministrativa, ma vanno coniugate con le conseguenze molto gravi che la mancanza del consulente comporta, nel caso in cui si verifichi un sinistro con lesioni a persone fisiche (condanna penale per lesioni colpose). Le nuove norme sono quindi sempre più stringenti e diventa sempre più sentita la necessità di avere al proprio fianco un professionista che sia in grado di dare soluzioni concrete ai vari problemi e che sia in grado di istruire con competenza le figure aziendali che devono gestire operativamente le spedizioni di merci pericolose in azienda. Per quanto riguarda il DGSA professionista (non dipendente), a valle delle sanzioni previste all’art 12 – commi 3 e 4 ed essendo legato all’azienda da un contratto, dovrà farsi carico di tutte le responsabilità che conseguono dalla firma di questo atto senza sottovalutare, se del caso, le possibili implicazioni di diversa natura. Quali sanzioni per l’impresa priva di consulente ADR? Da ricordare, inoltre, che in caso di sinistro con danni, in mancanza di nomina del consulente, le imprese assicuratrici potrebbero non rispondere per la responsabilità civile. È appena il caso di ricordare, infine, le implicazioni penali e quelle relative al D.lgs. 231/2001 a carico dell’azienda in caso di incidente sul lavoro che abbia coinvolto delle persone fisiche (Art. 25, D.lgs. 231/2001). Consulente ADR: un investimento e non un costo Alla luce di quanto fin qui detto, possiamo ben affermare che il DGSA non è soltanto colui che presenta la relazione annuale a fine anno, assolvendo così ai suoi doveri istituzionali, ma è una figura molto importante che interagisce continuamente con l’azienda, 365 giorni l’anno, facendo in modo che la sicurezza, la prevenzione degli incidenti e l’osservanza delle norme siano sempre al primo posto nella speciale classifica dei valori aziendali. Ricordiamo sempre che la sicurezza in azienda è un investimento e non un costo e chela cultura della sicurezza all’interno di una realtà aziendale è un vero e proprio generatore di valore per l’impresa stessa. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Responsabile Anticorruzione: come ottenere la certificazione ISO 37001?

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi ti voglio parlare di una certificazione molto importante, la ISO 37001, la stessa fornisce a qualsiasi tipo di organizzazione, una guida e i requisiti per stabilire, implementare, rivedere e migliorare un sistema di gestione anticorruzione. Ma perché ti parlo di questo? Dal 2012 sino ad oggi l’Italia, nella sua pubblica amministrazione, nella sua politica e nelle sue organizzazioni si sta impegnando per dare un’immagine diversa di sé. Dati alla mano, in quest’ultimo anno, grazie ad un significativo cambio di mentalità, abbiamo scalato 10 posizioni nella classifica di Transparency International andando a raggiungere il 42° posto su 180 paesi. La gestione dei rischi legati alle varie forme possibili di corruzione è fondamentale per avere successo a livello commerciale, e di gestione degli stakeholder. La certificazione ISO 37001 può assicurare alle parti interessate che sono state adottate, mantenute e continuamente migliorate delle misure efficaci contro un tarlo come quello della corruzione. Cos'è la ISO 37001? La norma ISO 37001, pubblicata nell’ottobre 2016, stabilisce i requisiti del sistema di gestione progettati per aiutarti a prevenire, rilevare e rispondere alla corruzione, nonché a rispettare le leggi anticorruzione e gli impegni volontari applicabili alle attività dell'organizzazione. Si applica esclusivamente alla corruzione, mentre altri aspetti, come la frode o il riciclaggio di denaro, possono essere inclusi nell'ambito del sistema di gestione in conformità con la legislazione pertinente, il tutto dando un valore più significativo al progetto stesso. Grazie all'introduzione di un sistema di controllo focalizzato alla prevenzione del rischio sarà possibile ridurre i rischi legati al fenomeno corruzione, a prescindere dalla provenienza di tale rischio, se da o per conto di un'organizzazione esterna o business partners così come dai suoi dipendenti, fornendo, allo stesso tempo, trasparenza e chiarezza sui controlli da eseguire, per facilitare la consapevolezza dei dipendenti sull’argomento e prevenire così il sorgere di eventuali casi di non conformità, nonché istruzioni precise su come implementarli con efficacia ed efficienza. Le verifiche ed i controlli, eseguiti da un team di auditor comprendente anche esperti in materia giuridica e finanziaria, presuppongono e utilizzano documenti di orientamento e supporto che, oltre a comunicare correttamente il contenuto della certificazione, specificano i requisiti relativi a: procedure e linee di condotta anticorruzione; leadership, impegno e responsabilità del Top Management; supervisione della conformità ai requisiti, da parte di funzioni apposite o manager; corsi di formazione anticorruzione; valutazione dei rischi e due diligence per i vari progetti e partner d’affari; controlli in ambito finanziario, commerciale, contrattuale e sui processi di approvvigionamento; reportistica, monitoraggio, indagini e revisioni; azioni correttive e miglioramento continuo. Chi può ottenere la Certificazione ISO 3700? Qualsiasi Organizzazione (piccola o grande, pubblica, privata o non governativa) può costruire un Sistema di Gestione che rispetti i requisiti della norma ISO 37001 e richiedere la Certificazione ISO 37001. Tra l’altro l’ISO 37001 è strutturata secondo lo schema della High Level Structure (HLS) e può dunque essere facilmente integrata con altri sistemi di gestione che l’Organizzazione ha eventualmente già adottato (per esempio l’ISO 9001:2015). Gli obiettivi dell’ISO 37001 sono ovviamente diversi, ma il suo linguaggio e il suo metodo sono comuni ad altri sistemi di gestione. Quali sono i vantaggi della certificazione ISO 37001? Un approccio strutturato è fondamentale per costruire fiducia e trasparenza, gestendo i rischi e salvaguardando, al contempo, la reputazione della tua azienda. La certificazione ISO 37001 supporta gli sforzi del tuo sistema di gestione anticorruzione, verificando che: i requisiti dello standard siano affrontati i controlli necessari siano in atto all'interno della tua organizzazione e in tutta la supply chain l'azienda disponga di procedure adeguate e proporzionate per prevenire attivamente la corruzione il sistema di gestione supporti la conformità con la legislazione anticorruzione applicabile L’ottenimento della certificazione per la ISO 37001 permette agli organismi pubblici e privati non solo di implementare un approccio strutturato rivolto alla prevenzione e al contrasto della corruzione ma anche di dotarsi di un documento di best practice, validato da un organismo indipendente, ostensibile ad interlocutori nazionali ed esteri, sanando finalmente il gap normativo creato in seguito all’introduzione del D.Lgs.231/01 e della legge 190 del 2012 per il settore pubblico, adempiendo agli obblighi legislativi previsti in materia. Il Sistema di Gestione ISO 37001 può infatti offrire un utile supporto per ottenere la conformità al Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (PTPC), il principale strumento adottabile dalla PA e dalle Società per favorire il contrasto della corruzione e promuovere la legalità all’interno dell’Organizzazione. Superare positivamente la verifica di conformità allo standard non significa che non esisteranno casi di corruzione o fenomeni collegati ad esso ma solamente che il Sistema di Gestione legato alla ISO 37001 è stato implementato ed utilizzato correttamente (tutto ciò comprende azioni preventive, di controllo e di recupero per situazioni eventualmente compromesse). Come si può ottenere la Certificazione ISO 37001? Per ottenere la Certificazione ISO 37001 bisogna costruire un Sistema di Gestione che rispetti i requisiti dettati dal nuovo Standard ISO 37001. Per costruire questo Sistema di Gestione è innanzitutto opportuno possedere delle competenze diversificate come: Competenze giuridiche nell’ambito del Decreto Legislativo 231/2001. Competenze nell’ambito dei Sistemi di Gestione e nello sviluppo di modelli organizzativi. Competenze di risk assessment e risk management. Ciò, tuttavia, non basta perché queste competenze debbono essere in grado di lavorare insieme. Un’organizzazione che voglia costruire un sistema di gestione per l’ISO 37001 deve sviluppare al suo interno i seguenti temi: Definizione di una policy anticorruzione documentata. Definizione di ruoli e responsabilità del management in materia anticorruzione. Costruzione di un Modello di Analisi del Rischio per individuare processi e attività aziendali maggiormente esposte al rischio di reato di corruzione. Stesura di un Modello Organizzativo e di procedure finalizzate alla prevenzione di reati di corruzione individuati nel risk assessment. Formazione a tutti i livelli dell’Organizzazione sulle tematiche dell’anti-bribery. Attuazione di opportuni controlli e due diligence in ambito finanziario, commerciale, contrattuale e sui processi di approvvigionamento. Pianificazione di una serie di attività di reporting, monitoraggio, auditing e riesame. Gestione delle azioni correttive e delle relative investigazioni finalizzate al miglioramento continuo. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Covid 19: fine emergenza sanitaria?

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi torniamo a trattare un argomento che nell’ultimo periodo è passato in secondo piano, ma che ancora oggi ha una certa rilevanza, ovvero quello del Covid. Essendoci stato da poco un cambio dei vertici del governo, ci si poteva immaginare vi sarebbero state alcune novità nella gestione delle normative sulla prevenzione dal Covid, cambiamenti che non hanno tardato ad arrivare. Vediamo insieme quali sono i primi cambiamenti del governo Meloni. Il bollettino Il 29 ottobre è stato l'ultimo giorno in cui il bollettino dei casi di Covid è stato diffuso quotidianamente. Dopo due anni e mezzo (il primo bollettino era datata 23 febbraio 2020) è arrivata la svolta annunciata dal neoministro della Salute Orazio Schillaci: il bollettino sarà d'ora in avanti settimanale. Il prossimo bollettino sarà dunque diffuso a livello nazionale il prossimo 4 novembre. Il 28 ottobre il ministero aveva annunciato la scelta in un comunicato che recitava così: "Il ministro della Salute, a sei mesi dalla sospensione dello stato d’emergenza e in considerazione dell’andamento del contagio da Covid-19, ritiene opportuno avviare un progressivo ritorno alla normalità nelle attività e nei comportamenti, ispirati a criteri di responsabilità e rispetto delle norme vigenti. Pertanto, anche in base alle indicazioni prevalenti in ambito medico e scientifico, si procederà alla sospensione della pubblicazione giornaliera del bollettino dei dati relativi alla diffusione dell’epidemia, ai ricoveri e ai decessi, che sarà ora reso noto con cadenza settimanale, fatta salva la possibilità per le autorità competenti di acquisire in qualsiasi momento le informazioni necessarie al controllo della situazione e all’adozione dei provvedimenti del caso". Le mascherine Prorogato l'obbligo di utilizzo delle mascherine negli ospedali e nelle Rsa. Il nuovo esecutivo era orientato a non rinnovare il provvedimento restrittivo ma, dopo gli inviti alla cautela e alla precauzione arrivati anzitutto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e poi dal mondo sanitario e da diverse Regioni, si è deciso per la proroga e quindi di rinnovare l'obbligo negli ospedali e nelle Rsa per proteggere i più fragili e gli anziani. L'obbligo vaccinale In base alle norme attuali, l'obbligo vaccinale per i medici e i sanitari è scaduto il 31 dicembre. Significa che per lavorare medici, infermieri, operatori sanitari e delle Rsa non dovranno più sottoporsi alla somministrazione vaccinale. In queste ultime ore il ministro della salute ha fatto la specifica richiesta di collocare medici e personale sanitario sprovvisto di vaccinazioni in reparti ove non ci siano pazienti a rischio contagio. Il reintegro dei sanitari NoVax I medici e gli infermieri NoVax saranno reintegrati. Si tratta al momento di 3400 persone allontanate dal posto di lavoro perché inadempienti con gli obblighi vaccinali. Nel momento in cui però decade anche l'obbligo viene meno anche la ragione per tenerli fuori dai reparti. Ad annunciare il reintegro è stato il ministro della Salute Orazio Schillaci in un comunicato del 28 ottobre che recitava: "Per quanto riguarda il personale sanitario soggetto a procedimenti di sospensione per inadempienza all'obbligo vaccinale e l'annullamento delle multe previste dal dl 44/21, in vista della scadenza delle disposizioni in vigore e della preoccupante carenza di personale medico e sanitario segnalata dai responsabili delle strutture sanitarie e territoriali, è in via di definizione un provvedimento che consentirà il reintegro in servizio del suddetto personale prima del termine di scadenza della sospensione". La sospensione delle multe ai NoVax Le sanzioni comminate ai non vaccinati over 50 che non hanno proceduto all'immunizzazione entro lo scorso 15 giugno saranno congelate fino all'estate 2023. Il ministero dell'Economia e delle Finanze ha fatto sapere di aver "terminato la sua istruttoria" e di aver quindi "inviato al Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una proposta emendativa ai fini della presentazione al disegno di legge di conversione del decreto-legge aiuti ter in esame alla camera. La proposta sospende fino al 30 giugno 2023 le attività e i procedimenti di irrogazione della sanzione nei casi di inadempimento dell'obbligo vaccinale Covid-19". Il Green Pass in ospedali e Rsa Negli ospedali e nelle Rsa vige ancora l'obbligo di Green Pass. Molto spesso inapplicato il provvedimento è ancora in vigore e la scadenza è fissata al 31 dicembre 2022. Il nuovo esecutivo non si è ancora espresso su questo punto. Le mascherine al lavoro Il protocollo siglato dalle parti sociali il 30 giugno scorso prevede che nei luoghi di lavoro l'uso delle mascherine non è più obbligatorio, anche se resta un presidio importante per la prevenzione del contagio. L'utilizzo o meno sarà quindi legato al ricorrere di alcune condizioni particolari di rischio: contesti di lavoro in ambienti chiusi e condivisi da più lavoratori; luoghi aperti al pubblico; luoghi di lavoro dove non è possibile il distanziamento interpersonale di un metro per le specificità delle attività lavorative. In tutti questi tre casi è necessario indossare la mascherina. Il protocollo, inoltre, pone a carico del datore di lavoro l'obbligo di assicurare la disponibilità delle mascherine. Le parti sociali, assieme a ministero del Lavoro, della Salute, all'Inail e alle associazioni di categoria si erano date il termine del 31 ottobre. Per una verifica delle nuove disposizioni alla luce dell’evoluzione normativa ed epidemiologica l'incontro è stato fissato al 4 novembre. Spero come sempre tu abbia trovato interessante l’argomento trattato, se ti è sorta qualche domanda non ti preoccupare, commenta qui sotto e saremo più che lieti di risponderti. Seguiranno altri aggiornamenti. Buona giornata, alla prossima!

  • Le sostanze reprotossiche: cosa sono, suddivisione e prevenzione

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Oggi mi piacerebbe trattare un argomento molto sensibile, che tocca il grande tasto della natalità. In Italia il tasso di natalità è in picchiata, pensa che il 2021 ha segnato un nuovo record negativo di nascite, dati alla mano, sono state registrate alle varie Anagrafe della nostra penisola meno di 400mila nascite, si tratta della cifra più bassa dal 1861. Sicuro nella tua testa aleggeranno molti pensieri ed opinioni, ed è corretto così, i fattori che possono influenzare questo dato sono molteplici. Infatti, avere la possibilità di far nascere una nuova vita in Italia costa parecchio (i dati medi indicano una cifra che si aggira intorno ai 650€/mese), inoltre, bisogna aggiungere un’altra considerazione, ovvero, la volontà stessa della coppia che in maniera più che lecita potrebbe voler attendere o agli estremi proprio non volere un figlio. Come penso tu possa sapere le dinamiche sono veramente tante, ma ciò che mi ha incuriosito è stato cercare di comprendere se il contesto lavorativo, qualunque esso sia, poteva in qualche modo influenzare la possibilità di avere un figlio sia per la madre che per il padre. Vediamo ora insieme quanto emerso. Le sostanze reprotossiche: cosa sono? Lo Scientific Committee on Occupational Exposure Limits nel 2013 ha definito la fertilità come: ”I processi che sottostanno alla capacità di un uomo e una donna di iniziare una gravidanza”, in dettaglio ha definito gli effetti avversi per la fertilità come conseguenze sulla libido (attrattiva sessuale), sul desiderio sessuale, la spermatogenesi, l’ovogenesi, ogni interferenza con l’attività ormonale o i parametri fisiologici che può incidere sulla abilità di fecondazione, impianto o sviluppo dell’embrione. I Fattori di rischio per la salute riproduttiva, in ambiente di lavoro, possono essere di diversa natura, quelli dovuti a sostanze chimiche sono certamente tra i più documentati. Attualmente la normativa per la tutela della salute dei lavoratori fa ricadere la gestione delle sostanze reprotossiche all’interno del Titolo IX capo I (Protezione da agenti chimici), ma il legislatore europeo già con il regolamento REACH (reg. CE1907/2006) le ha inserite tra le sostanze di ‘grande preoccupazione’, all’interno del regime di autorizzazione. Considerando le evidenze emerse negli ultimi anni, si è ritenuto di aggiornare la direttiva 2004/37/CE, relativa alla gestione delle sostanze cancerogene e mutagene in ambiente di lavoro, con l’inserimento anche delle sostanze reprotossiche. È stata quindi emanata il 09/03/2022 la direttiva UE 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio, il cui recepimento è previsto entro febbraio 2024, e prevede misure di gestione del rischio più stringenti e tutelanti in caso di esposizione a reprotossici in ambiente di lavoro. Come vengono suddivise? Negli ultimi 20 anni c’è stato un incremento di coppie infertili che ricorrono a centri di fecondazione assistita. È stato stimato che circa il 15% delle coppie presenta problemi di fertilità. Nella normativa per la tutela dei lavoratori è stata posta molta attenzione alla tutela della donna in gravidanza, ma finora la possibile esposizione a sostanze reprotossiche, in particolare anche per la popolazione maschile, sembra sia stata ampiamente sottostimata. Le sostanze chimiche per cui sono state identificate caratteristiche di pericolosità legate alla tossicità riproduttiva sono circa 150 in Unione europea, classificate come: categoria 1A, tossiche per la riproduzione (sostanze note per causare effetti avversi sulla salute riproduttiva nell’essere umano) categoria 1B, sostanze presumibilmente tossiche per la salute riproduttiva umana. Comprendono sostanze molto diverse presenti in numerosi cicli produttivi industriali, come nella produzione di vernici e lacche, adesivi e prodotti per la pulizia, industria della plastica e della gomma, ma l’esposizione è stata documentata anche in contesti non industriali come in attività di cura della persona ed estetica, nel commercio per contatto con carta termica di scontrini e molto altro. I livelli espositivi, chiaramente, possono essere molto diversi da contesto a contesto. Si riporta nella grafica qua sotto un elenco indicativo, non esaustivo, delle sostanze reprotossiche e i relativi ambienti di lavoro potenzialmente coinvolti dalla loro esposizione. Sostanze reprotossiche di ambiente di lavoro potenzialmente coinvolti nella loro esposizione Quali possono essere le misure di prevenzione? La normativa europea chiede sempre con maggiore forza la definizione di valori limite di esposizione, anche per questo tipo di sostanze, per poter procedere in modo più puntuale con la valutazione dell’esposizione e del rischio per la salute. La stima del valore stesso presenta però delle difficoltà specifiche poiché normalmente i test sperimentali utilizzati per la definizione di valori limite di esposizione non prevedono indagini in vivo dedicate alla reprotossicità. Sarà, quindi, necessario condurre considerazioni specifiche e identificare test applicabili che consentano di definire valori limite dedicati. Rispetto alla tutela della salute riproduttiva va sottolineato come piani di promozione della salute, per la popolazione generale, sia in ottica di alimentazione sana che di movimento, buone abitudini di vita e conoscenza sui tempi della fertilità maschile e femminile sono certamente punti di partenza importanti. Dei fattori di rischio per la fertilità, potenzialmente presenti in ambiente di lavoro, quello derivante da sostanze chimiche richiede azioni attente da parte dei datori di lavoro poiché sono numerosi e diversificati i contesti implicati e le evidenze scientifiche mostrano un numero consistente di forza-lavoro coinvolta. L’approccio di prevenzione più funzionale in ambiente di lavoro è certamente quello generale della eliminazione e della sostituzione per quanto possibile di queste sostanze dai cicli produttivi. Nei casi in cui ciò non fosse tecnicamente possibile è evidente come l’aspetto della reprotossicità debba entrare all’interno di considerazioni di prevenzione secondaria, quindi nelle attività del medico competente, nei protocolli di sorveglianza sanitaria, per identificare precocemente eventuali elementi che possano orientare ad una sempre più specifica tutela della salute del lavoratore e della lavoratrice. Spero come sempre di essere stato abbastanza chiaro, l’argomento in questione è abbastanza delicato e sono sicuro che la tecnologia nei prossimi anni ci verrà in aiuto la tecnologia andando a dettare i famosi valori limite che determineranno la corretta esposizione da parte di tutti per non avere problemi con il nostro apparato riproduttore e tutto ciò che ne comporta. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Alla prossima!

  • Impianto Fotovoltaico: costo, tipologie e detrazioni fiscali

    Buongiorno, Caro lettore bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Ci tengo ad anticiparti che oggi non parleremo né di qualità né di sicurezza, tratteremo di un tema che abbraccia l'ambiente, ed è fortemente attuale. Scopriamo di che si tratta. Devi sapere, che oggi installare un impianto fotovoltaico per le aziende è una scelta conveniente, considerando i recenti rincari delle bollette lo definirei un vero e proprio investimento. Inoltre, vi sono degli incentivi statali che potrebbero aiutarti ad assicurarti un risparmio, ed oggi ho deciso di farti una breve introduzione all’argomento. Ecco cosa devi sapere su costi, incentivi e funzionamento degli impianti. La pandemia e la crisi energetica hanno accelerato l’inevitabile transazione verso un’economia circolare, tali condizioni hanno favorito lo sviluppo di impianti fotovoltaici per aziende. Infatti, nei prime 6 mesi di questo 2022 sono stati installati 71mila impianti, un numero che ha superato quelli realizzati tra il 2014 e il 2021, per una potenza pari a 1 GW. Di questi quasi il 30% sono stati richiesti da aziende e dalle Partite IVA agricole. L’utilizzo di energie rinnovabili è una soluzione immediata al problema energetico e al contempo sottolinea una nuova forma di cultura delle aziende verso la riduzione dei costi e l’attenzione all’ambiente. Se disponi di una Partita IVA come impresa, oggi grazie ai finanziamenti collegati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) italiano, avrai a disposizione una serie di incentivi e agevolazioni. Non potrai installare un impianto fotovoltaico gratis (come nel caso delle utenze domestiche), ma disporrai di una serie di sostegni economici da parte dello Stato per permettere la transizione energetica. Impianto fotovoltaico per aziende: cos’è In termini semplici, un impianto fotovoltaico è un sistema che sfrutta un processo completamente naturale per generare corrente elettrica dalla luce del sole, chiamato effetto fotovoltaico. La particolare composizione dei pannelli realizzati da celle di silicio, un semiconduttore presente in natura, permette di convertire l’energia dei raggi solari in elettricità. La corrente creata verrà utilizzata per soddisfare il bisogno della tua impresa e in parte immessa nella rete nazionale. Oggi esistono due forme di impianti fotovoltaici: uso domestico; uso industriale per aziende. I due sistemi sono simili dal punto di vista del meccanismo per generare corrente. Infatti, ambedue prevedono il concetto di effetto fotovoltaico e la possibilità di auto-sostenere un impianto aziendale anche con diverse macchine industriali oppure una casa. Ciò che li differenza è la potenza erogata. Infatti, le versioni domestiche hanno la capacità di generare dai 2 ai 6 kW. Invece, un impianto fotovoltaico per azienda prevede un minimo di 10 kW fino a un massimo di 300 kW. Tipologie di impianto industriale A sua volta gli impianti industriali si distinguono in due categorie: impianto fotovoltaico con immissione diretta; fotovoltaico con accumulo. Nel primo caso puoi disporre di un sistema collegato direttamente con il sistema elettrico della tua azienda permettendo il consumo immediato dell’energia. Ciò significa che la corrente generata verrà utilizzata per il funzionamento della tua impresa, mentre quella inutilizzata sarà introdotta nella rete. Invece, un impianto fotovoltaico con un sistema di accumulo prevede una serie di batterie esterne che vengono utilizzate per immagazzinare la corrente. In questo modo potrai utilizzare l’energia per due scopi: far funzionare la tua impresa nelle giornate in cui non hai adeguata potenza dell’impianto; immetterla nella rete e ottenere un ritorno economico. Infatti, se da un lato un impianto fotovoltaico ti permette di risparmiare sulla corrente, dall’altro devi considerare che l’energia non si genera con un cielo pieno di nuvole, quando piove, oppure durante le ore notturne. Impianto fotovoltaico per imprese: costi Il costo di un impianto fotovoltaico per un’azienda varia in base alla tipologia di sistema di accumulo e alla potenza. I costi di riferimento sono i seguenti: costo dei materiali: comprende la spesa collegata ai pannelli, il sistema di accumulo, i cavi e i sostegni; progettazione e installazione: ogni impianto prevede un sopralluogo, con un progetto in base alle necessità dell’azienda e di manodopera; costi amministrativi: devi considerare le autorizzazioni al Comune, le pratiche di collaudo e la richiesta al gestore GSE (Gestore Servizi Energetici), la società controllata dallo Stato italiano e predisposta alla transizione ecologica. L’aspetto della progettazione è determinante. Infatti, tutti gli impianti, compresi quelli domestici, prevedono una potenza superiore rispetto al consumo medio ordinario. In linea di massima per un’azienda di piccole dimensioni e che dispone di pochi macchinari, potrai investire dai 12.000€ ai 25.000€. Invece, se disponi di un’attività che prevede un consumo di energia maggiore, dovrai considerare un investimento che parte dai 65.000€ in su. Riporto in seguito dei prezzi approssimativi in relazione a quanto appena riportato. Impianto da 10 kW da 12 a 25 mila € Impianto da 30kW da 40 a 65 mila € Impianto da 110kW da 130 a 210 mila € Impianto da 200kW da 250 a 375 mila € Impianto da 300KW da 350 mila euro a svariati milioni di € Incentivi fotovoltaico 2022 per le aziende La spesa di un impianto fotovoltaico può incidere sul bilancio di una Partita IVA, soprattutto in un momento storico come quello odierno. Dall’altro lato l’utilizzo dell’energia pulita riflette la sensibilizzazione degli ultimi anni con una serie di iniziative da parte del Governo italiano per rientrare nel piano europeo, definito il Green Deal, finalizzato a ridurre del 55% le immissioni di idrocarburi entro il 2030. In questa prospettiva all’interno del PNRR italiano, ovvero il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato dalla Commissione Europea a luglio 2021, sono stati introdotti una serie di incentivi per la green economy, ovvero l’obiettivo di raggiungere una forma di economia con impatto ambientale ridotto e particolari miglioramenti sociali. In particolare, sono stati stanziati nuovi fondi per supportare proprio la creazione di impianti fotovoltaici per aziende. Ecco quali sono gli incentivi: credito d’imposta; scambio sul posto; reverse charge o IVA agevolata; nuova Sabatini; comunità energetiche. 1) Credito d’imposta Se hai intenzione di installare un impianto fotovoltaico per aziende, puoi disporre di un credito di imposto pari al 6%. Ciò vuol dire che hai la possibilità di utilizzare parte dei soldi che hai investito per realizzare l’impianto fotovoltaico al fine di ottenere uno sgravio fiscale sulle tasse dovute. Per ottenerlo devi rientrare nei seguenti requisiti: spesa massima dell’impianto entro i 2 milioni di euro; utilizzo del credito entro il 31/12/2022, con la possibilità di estenderlo fino al 2023. 2) Scambio sul posto Altro incentivo per l’istallazione di pannelli fotovoltaici per le imprese è quello relativo allo scambio sul posto. Questo termine identifica la possibilità di immettere la corrente che hai prodotto con energie rinnovabili, all’intero della rete elettrica nazionale. In questo modo potrai ottenere una riduzione del costo dell’energia. Inoltre, se l’impianto ha una capacità superiore rispetto al fabbisogno della tua impresa, potrai anche disporre di un ritorno economico concreto in bolletta. 3) Reverse charge Il termine reverse charge identifica un meccanismo fiscale in base al quale si permette a un’azienda, che investe in un impianto fotovoltaico, di avere subito un vantaggio economico. In particolare, il reverse charge prevede una franchigia sull’IVA al momento dell’acquisto. Potrai così ridurre notevolmente il costo iniziale del tuo investimento ammortizzandolo poi nel tempo. 4) Impianto fotovoltaico per aziende: Nuova Sabatini La Nuova Sabatini è un sistema di agevolazione per l’accesso al credito che puoi utilizzare come PMI al fine di effettuare l’acquisto di nuove attrezzature e macchinari. È stata rifinanziata con la Legge di Bilancio 2022, prevedendo l’accesso agevolato a finanziamenti per la progettazione e installazione di nuovi impianti fotovoltaici, per importi che vanno dai 20.000€ ai 4.000.000 di euro. Il finanziamento viene ripartito in un arco di minimo 5 anni e con la suddivisione in sei quote. 5) Comunità energetiche Il termine comunità energetiche si riferisce alla pratica da parte di un gruppo di imprese, che dispongono di un impianto fotovoltaico o di altri sistemi di energia rinnovabili, di unirsi insieme al fine di ottenere una serie di vantaggi. Per creare una comunità energetica sono necessari i seguenti requisiti: disporre di un sistema di produzione di energia che soddisfi il fabbisogno energico della singola azienda; la fonte di energia deve essere rinnovabile. Entrando a far parte di una comunità energetica, gli incentivi delle singole imprese potranno essere cumulati tra di loro al fine di promuovere lo sviluppo di nuovi impianti. Inoltre, puoi ottenere una riduzione di una serie di costi in bolletta se viene immessa nella rete una quantità di energia rinnovabile tra i 150 e i 160 C/Mhw. Impianto fotovoltaico per aziende agricole 2022 Se disponi di una Partita IVA agricola, e decidi di installare sul tetto dei tuoi fabbricati o su un terreno adiacente un impianto fotovoltaico, potrai aderire al bando Parco Agrisolare. Sono stati previsti 1,5 miliardi di euro che verranno suddivisi per le aziende agricole e per le industrie agroalimentare al fine di sostenere la transizione ecologica. Potranno aderire a questa iniziativa le seguenti imprese: imprenditori agricoli che dispongo di Partita IVA individuale oppure come società; imprese agroindustriali in possesso del codice ATECO 01; cooperative agricole; possessori del titolo IAP (Imprenditore agricolo professionale). Il bando prevede un finanziamento agevolato per un importo fino a un massimo di 50.000€ finalizzato a: realizzazioni di impianti fotovoltaici; sistemi di accumulo; fornitura e posa in opera dei materiali; costi per la progettazione e l’allacciamento alla rete. Come richiedere un impianto fotovoltaico per le imprese La procedura per richiedere un impianto fotovoltaico per un’impresa prevede una serie di step: fattibilità dell’impianto; progettazione; richiesta di autorizzazione; realizzazione dell’impianto; allacciamento. Il primo passo è quello di contattare un’azienda specializzata nell’installazione dei pannelli fotovoltaici. A questo punto verrà effettuato un sopralluogo, gratuito, al fine di verificare la fattibilità dell’installazione dei pannelli. Questi potranno essere sistemati sul tetto, lungo la parete di un capannone o di un edifico, oppure su una porzione di terreno. Dovrà essere calcolata la potenza dell’impianto al fine di permettere la sostenibilità della tua impresa. Il passo successivo riguarda la fase di progettazione, in cui ti verrà presentato un preventivo comprensivo di tutti i costi. Una volta accettato, sarà la stessa ditta a richiedere l’autorizzazione al Comune di riferimento per la creazione dell’impianto, oltre a comunicare alla società GSE (Gestione Servizio Elettrico) la richiesta di allacciamento alla linea elettrica nazionale. A questo punto, si passerà alla posa in opera dei pannelli, che può prevedere una tempistica variabile in base alla grandezza del progetto. Una volta conclusa l’installazione sarà necessario attendere il collaudo da parte della ditta e l’allacciamento di un tecnico abilitato dalla società GSE. Quanto tempo ci vuole per rientrare dall’investimento del fotovoltaico? La risposta a questo quesito non è semplice, dato che a influenzare l’ammortamento di un impianto fotovoltaico per aziende vi sono diversi fattori. In primo luogo, devi considerare la quantità di energia generata in un anno. Questa può variare in base al tempo e alla collocazione del sistema fotovoltaico. Ovviamente più energia produci e maggiore sarà la possibilità di rientrare nell’investimento con rapidità. Altro aspetto ovvio è il consumo interno della tua impresa. Se effettui un’attenta gestione delle tue attività aziendali, potrai ottenere una piena autosufficienza dalla rete elettrica e anzi, attraverso il sistema di autoconsumo, immettere anche energia per venderla. In questo modo otterrai un ritorno economico che andrà a ridurre la tempistica di ammortamento. Infine, devi considerare anche il costo dell’impianto. Se da un lato un sistema fotovoltaico più grande prevede un investimento maggiore iniziale, dall’altro produrre un surplus più elevato di energia potrà essere un valido sistema per rientrare prima nel capitale versato. In linea di massima un impianto di media potenza ti permette di rientrare nei costi dai 5 ai 10 anni, mentre i tempi sono più brevi per quelli di maggiore capacità. A questo devi poi aggiungere l’acceso agli incentivi. Impianto fotovoltaico per aziende: conviene? Per rispondere a questa domanda può essere utile considerare che un impianto fotovoltaico di nuova generazione ha una vita che va dai 25 ai 30 anni. Inoltre, la sua installazione comporta dei vantaggi immediati. Ecco quali sono gli aspetti da valutare: riduzione del fabbisogno energetico: avrai la possibilità di ridurre o azzerare la tua spesa di energia con un netto impatto sui costi delle bollette sul bilancio di fine anno; produzione di energia: il tuo impianto potrà immettere nella rete nazionale una certa quantità di energia che verrà distribuita, ottenendo un ritorno economico; riduzione dei costi energetici: immettere energia pulita nella rete vuol dire ridurre anche la necessità di produrla da fonti a carbone, con un minor costo anche per gli altri utenti; tutela dell’ambiente: un impianto fotovoltaico rientra in quelle politiche finalizzate a contribuire, con la tua attività, a proteggere l’ambiente; competitività: abbassare i costi dell’energia ti permette di avere un’impresa più competitiva e che potrà essere definita green, un fattore che può contribuire a differenziarsi dai concorrenti. Devi però considerare anche gli aspetti negativi. Tra questi quello che incide in maniera preponderate è l’investimento iniziale che può essere sostanzioso. Infine, anche in presenza di incentivi e di bandi l’ammortamento rimane nei 5-10 anni. Spero come sempre di essere stato abbastanza chiaro andando a toccare quelli che avrebbero potuto essere i quesiti da porre, ma nulla toglie che ti sia rimasto qualche dubbio, se così fosse non esitare a contattarmi, io o uno dei nostri tecnici saremo lieti di fornirti maggiori informazioni in merito. Colgo l’occasione per augurarti una buona giornata. Alla prossima!

  • PEE: Cos'è il piano di emergenza ed evacuazione?

    Buongiorno, Caro lettore bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Visto e considerato il recente incendio che ha avuto luogo nella zona sud di Milano, più precisamente a San Giuliano Milanese, mi piacerebbe parlare oggi del piano di emergenza ed evacuazione. Il PEE è un documento da integrare al DVR ed è di grande importanza per affrontare le situazioni di rischio nel modo più efficace, fornisce delle linee guida per i lavoratori, in modo che sappiano quali misure mettere in atto per ridurre al minimo i rischi in caso di eventi eccezionali ed emergenze. Vediamo, in questo articolo, cos'è il piano di emergenza e di evacuazione, quando è obbligatorio e chi deve redigerlo. Cominciamo... Piano di emergenza ed evacuazione: cos’è Il Piano di emergenza ed evacuazione è un elaborato sintetico, che include le operazioni, che i lavoratori devono attuare per prevenire le situazioni di rischio in caso di emergenza e per abbandonare il luogo di lavoro (zona pericolosa) in modo tempestivo e sicuro. I casi di emergenza possono essere diversi: incendi esplosioni crolli allagamenti fughe di gas varie calamità naturali e ogni tipo di evento accidentale e non prevedibile. Il PEE è un documento che deve essere presente sul posto di lavoro e, in base a quanto stabilito dal D.Lgs. 81/08 (articolo 43) e dal DM 10 marzo 1998 (articolo 5), esso risulta obbligatorio: per le attività con almeno 10 dipendenti; per le attività soggette al controllo dei Vigili del Fuoco, ai sensi del DPR 151/2011 (qui puoi consultare l'elenco completo). Dunque, mentre il Documento di Valutazione dei Rischi individua tutti i fattori di rischio e le misure di prevenzione e protezione da adottare sul posto di lavoro, il Piano di Emergenza ed Evacuazione si concentra, nello specifico, sulle misure da mettere in atto nelle situazioni di emergenza. Inoltre, tutte le aziende tenute a redigere il PEE sono obbligate ad effettuare, con cadenza almeno annuale, una prova di evacuazione, coordinata dagli addetti alle emergenze, alla quale partecipano tutti i lavoratori. Lo svolgimento della prova viene, poi, verbalizzato. PEE: chi lo redige e quali sono gli obblighi per il datore di lavoro Il PEE deve essere predisposto dal datore di lavoro, in collaborazione con il RSPP, gli addetti al primo soccorso e alla prevenzione incendi. Nel piano di emergenza devono essere identificate le figure atte a gestire e sovrintendere l'attuazione delle procedure: per questo, è bene che si tratti di soggetti con determinati requisiti, ovvero persone che denotano sangue freddo e predisposizione all'intervento. Quindi, le figure non in grado di gestire in modo lucido ed efficace le situazioni di emergenza non dovrebbero essere indicate tra gli incaricati. Nella gestione dell'evento, inoltre, va stabilito uno schema di flusso, dove ogni soggetto coinvolto abbia ruoli, compiti e responsabilità ben definite: ciò permette di rendere la gestione dell'emergenza e dell'evacuazione più semplice ed efficace. Le disposizioni generali indicate per legge, all'articolo 43 del Testo unico sulla sicurezza, prevedono che il datore di lavoro debba: Organizzare gli indispensabili rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell'emergenza; Designare preventivamente i lavoratori addetti; Informare tutti i lavoratori che possono essere esposti a un pericolo grave e immediato sulle misure predisposte e i comportamenti da adottare; Programmare gli interventi, prendere i provvedimenti e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro; Adottare i provvedimenti necessari affinché qualsiasi lavoratore, in caso di pericolo grave e immediato e nell'impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possa prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo (tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili). Inoltre: Ai fini delle designazioni della figura di addetto antincendio e gestione al primo soccorso, il datore di lavoro deve tenere conto delle dimensioni dell'azienda e dei rischi specifici dell'impresa o dell'unità produttiva; I lavoratori non possono rifiutare la designazione, se non per giustificato motivo. Essi devono essere formati, essere in numero sufficiente e disporre di attrezzature adeguate, tenendo conto delle dimensioni e dei rischi specifici dell'azienda o dell'unità produttiva; Il datore di lavoro, salvo eccezioni debitamente motivate, deve astenersi dal chiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato. Piano di emergenza ed evacuazione o piano antincendio? Spesso viene, erroneamente, fatta confusione tra piano di emergenza ed evacuazione e piano antincendio. In realtà, la valutazione del rischio incendio, redatta ai sensi del DM 10 marzo 1998, prevede la definizione dei criteri per la valutazione di tale rischio nei luoghi di lavoro, in modo da classificare l’azienda in base al solo rischio incendio. Il Piano di Emergenza, invece, come illustrato in precedenza, si focalizza sulle azioni e procedure da seguire nel caso si verifichi una qualsiasi emergenza. Quando deve essere aggiornato il piano di emergenza ed evacuazione? In maniera analoga al DVR il piano di evacuazione va aggiornato in occasione di cambiamenti o modifiche che alterino significativamente il livello di rischio aziendale rendendo inefficaci le procedure previste in precedenza. Spero di esser stato abbastanza chiaro ed esaustivo, approfondendo quanto più possibile un argomento delicato come questo. Per qualsiasi informazione o richiesta aggiuntiva non esitare a contattarci, saremo più che lieti di fugare ogni tuo singolo dubbio. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • IATF 16949: cos'è il sistema di qualità automotive?

    Buongiorno Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Spero tu ti sia divertito e rilassato durante queste vacanze estive, ricaricare le pile è molto importante per tornare al lavoro con nuove energie. Oggi ti proporrei di ripartire con un argomento leggero, curioso, senza annoiarti. A tutti, in particolare, al genere maschile piacciono le automobili, sin da piccini quando si vedeva una bella macchina sfrecciare in strada ci si fermava attoniti a guardarla nella speranza un giorno di possederne una altrettanto bella. Molte persone crescendo hanno trasformato queste emozioni in un’attività, chi come carrozziere, chi come meccanico, chi noleggiando auto di lusso e chi avviando attività più strutturate come la produzione in serie di componentistiche, o parti legate al miglioramento delle performance delle auto stesse. Se mastichi motori, o no, non fa molta differenza, saprai benissimo che un’auto è costituita da una molteplice quantità di componenti e di materiali. Negli anni 60, 70 e 80 le automobili erano molto semplici, e non vi erano delle certificazioni necessarie a garantire la qualità delle componentistiche innestate sull’auto, basta immaginare le prime 500, progettate e sviluppate con materiali poveri, un po’ per mancanza di tecnologie e sviluppo, un po’ per mantenere prezzi accessibili a molte famiglie. Dalla seconda metà degli anni 90 la dotazione tecnologica in vettura aumenta, e il settore automotive inizia ad interfacciarsi con altri settori, come quello plastico, piuttosto che quello elettronico. Dagli anni 2000 in poi il tutto ha preso una piega drastica, ciò che si poteva trovare in un modello di punta degli anni 90 (sedili elettrici, alzacristalli elettrici, aria condizionata) lo si può comodamente nella dotazione di base di molte automobili. Ovviamente il mercato delle automobili è globale, e dal 2015 le aziende che riforniscono questo settore hanno la possibilità di ottenere una certificazione utile a garantire la qualità del loro operato e a creare una barriera all’ingresso per i nuovi competitor attraverso l’IATF 16949, giustamente le grandi case costruttrici devono tutelare i loro consumatori a fronte di una cospicua spesa. Dopo questa dovuta introduzione vediamo nel dettaglio di cosa si tratta. Cos’è IATF 16949? IATF 16949:2016 è un sistema di qualità in ambito automotive basato sullo standard ISO 9001:2015 con specifici requisiti del settore automobilistico. Lo standard è applicabile a qualsiasi organizzazione che produce componenti, assemblaggi e parti per la fornitura all'industria automobilistica. Lo standard in sé non contiene i requisiti della norma ISO 9001:2015, quindi le organizzazioni devono garantire che entrambi gli standard vengano utilizzati quando si implementano i requisiti. La norma IATF 16949 enfatizza lo sviluppo di un sistema di gestione della qualità orientato ai processi che prevede il miglioramento continuo, la prevenzione e la riduzione degli sprechi e delle variazioni nella catena di approvvigionamento. L'obiettivo è soddisfare i requisiti del cliente in modo efficiente ed efficace. A proposito di IATF La IATF è un gruppo "ad hoc" di produttori automobilistici e delle rispettive associazioni nazionali dell'industria automobilistica, formato per fornire prodotti di migliore qualità ai clienti automobilistici di tutto il mondo. Nello specifico, le finalità per le quali è stata costituita la IATF sono: • Sviluppare un consenso sui requisiti fondamentali del sistema di qualità internazionale, principalmente per i fornitori diretti di materiali di produzione, parti di prodotti o servizi o servizi di finitura delle società partecipanti (ad es. trattamento termico, verniciatura e placcatura). Questi requisiti saranno disponibili anche per altre parti interessate nell'industria automobilistica. • Sviluppare politiche e procedure per lo schema comune di registrazione di terze parti IATF per garantire coerenza a livello mondiale. • Fornire una formazione adeguata a supportare i requisiti IATF 16949 e lo schema di registrazione IATF. • Stabilire collegamenti formali con gli organismi appropriati per supportare gli obiettivi della IATF. IATF 16949 è adatta a me? La certificazione IATF 16949 è applicabile a qualsiasi organizzazione che produce componenti, assemblaggi e parti per la fornitura per l'industria automobilistica. In questo contesto produttivo è definito come: “Il processo di creazione o di fabbricazione di materiali di produzione, parti di produzione o di servizio, assemblaggi o trattamento termico, saldatura, verniciatura, placcatura o altri servizi di finitura” Benefici della Certificazione IATF 16949 • Soddisfazione del cliente Fornire prodotti che soddisfino costantemente le esigenze dei clienti e un servizio affidabile ed efficiente. • Costi operativi ridotti Il miglioramento continuo dei processi e la conseguente efficienza operativa significano risparmio di denaro. • Migliori relazioni con le parti interessate Migliora la percezione della tua organizzazione con personale, clienti e fornitori. • Comprovate credenziali aziendali La verifica indipendente secondo uno standard internazionalmente riconosciuto ti rende maggiormente credibile. • Capacità di aumentare il volume d'affari Le specifiche di approvvigionamento spesso richiedono la certificazione come condizione per la fornitura; quindi, la certificazione ti apre le porte. • Riconoscimento globale come fornitore affidabile La certificazione è riconosciuta a livello internazionale e accettata attraverso le catene di approvvigionamento del settore, stabilendo parametri di riferimento del settore. • Approccio coerente alla qualità Approccio comune nella catena di fornitura per lo sviluppo dei fornitori o dei subappaltatori, guidando la coerenza, la competenza e il controllo. Tutte le organizzazioni certificate vengono aggiunte al sito web IATF delle organizzazioni riconosciute, una copia delle informazioni relative al certificato è contenuta nel sito e può essere verificata in qualsiasi momento. Se desideri verificare un certificato IATF 16949, clicca Qui. Considerando il numero di auto elettriche, o comunque con tecnologie che vanno a sostituire i motori termici, presenti sul mercato sono decisamente in crescita, sicuramente nei prossimi anni vi sarà una nuova ricerca o un’integrazione di nuovi fornitori che producono specifici componentistiche molto rare e utili a questa evoluzione del mondo automotive. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • ISO 13009: certificazione della gestione delle spiagge

    Buongiorno, Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Quest’anno ho deciso di farti compagnia anche in spiaggia sotto l’ombrellone, si sa nei momenti di relax si cerca sempre qualcosa di interessante da leggere. Ed ecco a te una piccola lettura interessante che potrebbe fare proprio al caso tuo. Il turismo marittimo è sicuramente uno dei pilastri portanti dell'economia italiana, potendo vantare chilometri di costa, stabilimenti balneari e spiagge attrezzate e in diverse Regioni rappresenta la principale fonte economica per le località costiere. Poiché queste strutture rispondono alle più svariate esigenze, risulta evidente quanto sia elevata la pressione antropica sui nostri litorali e difficoltosa la gestione del territorio, richiedendo attenzioni su aspetti diversificati per rispondere ad esigenze sociali e ambientali. Ogni spiaggia e ogni costa sono uniche, ma la gestione sostenibile dell'ambiente rispecchia delle linee guide che devono essere applicate correttamente e proficuamente in ogni ambiente, valorizzando il tessuto ambientale, sociale ed economico locale. Un concreto supporto alla dimostrazione di una gestione sostenibile delle spiagge è rappresentata dalla certificazione ISO 13009. Cos'è la ISO 13009:2018? ISO 13009 ovvero la “spiaggia sostenibile e di qualità”, dove i gestori possono dimostrare una gestione sostenibile del litorale e il rispetto di determinati requisiti di qualità del servizio e delle strutture. Il valore aggiunto della ISO 13009 è proprio quello di supportare gli operatori degli stabilimenti balneari nell'adozione di comportamenti e metodi volti al miglioramento della qualità del servizio e alla gestione sostenibile dei luoghi, migliorando il tessuto sociale ed economico e le comunità locali nel loro insieme, nonché il soddisfacimento dei requisiti dei turisti. La norma ISO 13009 è uno standard internazionale che si focalizza su specifiche aree: analisi dei rischi; la sicurezza e la gestione delle emergenze; la tutela dell'ambiente, la qualità dell'acqua e la gestione dei rifiuti; l'accessibilità e l'ombreggiamento; le infrastrutture fisse e mobili e le attrezzature; la segnaletica; il primo soccorso e i servizi infermieristici; la comunicazione e l'informazione; la pulizia; i servizi di somministrazione; il monitoraggio e la valutazione. Chi può richiedere la certificazione ISO 13009? L'adesione allo standard ISO 13009 è volontaria e può essere sostenuta da gestori pubblici o privati di stabilimenti balneari, di strutture ricettive, di spiagge libere attrezzate, circoli, associazioni sportive. È allo stesso tempo uno strumento utile per agenzie di viaggio, promotori immobiliari e amministrazioni locali per valorizzare e contribuire alla gestione sostenibile delle coste. La ISO 13009 è dunque uno strumento di garanzia che il livello dei servizi erogati è oggettivamente elevato sotto diversi e rilevanti profili quali: la gestione aziendale sostenibile, il basso impatto ambientale, la tutela e il rispetto dell'ambiente, una corretta gestione dei rifiuti, la pulizia e il presidio dell'ambiente naturale, accessibilità, sicurezza, informazione e comunicazione, attività di intrattenimento. Vantaggi della certificazione ISO 13009 Diversi sono i benefici che si possono ottenere con l'adozione della ISO 13009, sia per l'operatore balneare che per la comunità: migliore immagine sul mercato e marketing ambientale; aumentare la prestazione e la qualità del servizio turistico; migliorare la soddisfazione dei clienti; facilitazioni in sede di bandi e gare per le concessioni demaniali; rispetto della conformità normativa e soddisfacimento delle aspettative degli stakeholders; mantenimento e miglioramento delle infrastrutture ad un elevato stato di efficienza; analisi e gestione dei rischi ambientali, sociali ed economici; prevenzione degli incidenti e gestione delle emergenze; minor impatto sull'ambiente; contributo alla sostenibilità ambientale ed economica locale; miglioramento del tessuto economico e sociale delle località balneari; crescita economica della Regione. Come ottenere la certificazione ISO 13009:2018? Il ciclo di certificazione prevede le seguenti fasi: pre-audit (facoltativo): prima valutazione finalizzata ad individuare eventuali gap da colmare prima di sostenere l'audit valutazione della documentazione e verifica dei requisiti documentali necessari per la certificazione audit di certificazione: verifica della conformità ai requisiti dello standard UNI ISO 13009:2018 emissione del certificato triennale a seguito esito positivo dell'audit audit di sorveglianza annuale rinnovo del certificato dopo 3 anni dall'ottenimento della certificazione I mari e le spiagge non sono sicuramente tipici del territorio di nostra competenza, ma anche tu come noi penso sia solito frequentare, o aver frequentato, durante l’estate. Sapere che ci sono località marittime Italiane dove si punta alla salvaguardia dei litorali e alla sostenibilità ambientale dello stabilimento, avvalorando così la loro proposta ad una fetta di mercato sempre più attenta a questi aspetti senza trascurare la cura ed il benessere del cliente. A mio avviso un importantissimo passo per un futuro più sostenibile. Spero come sempre di averti fornito una panoramica completa circa l’argomento trattato, ti ricordo che per qualsiasi informazione io e lo staff di TQSA rimaniamo a disposizione. Alla prossima settimana con un nuovo articolo. Buona giornata!

  • Caso studio: caduta del cassonetto dei rifiuti

    Buongiorno Caro lettore, bentornato nel nostro appuntamento settimanale sulla sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. Come penso tu ben sappia se mi segui da un po’ ciclicamente propongo dei casi studio, analizziamo nel dettaglio near miss o, in casi peggiori, dei veri e propri incidenti per comprenderne gli errori che sono stati commessi e le accortezze che bisogna avere per poterli evitare. Negli altri articoli che trovi nella sezione dedicata al nostro blog, trattiamo principalmente di formazione e informazione, ma a volte è altrettanto interessante riportare temi più pratici, e sicuramente scoprire cosa si cela dietro un incidente realmente accaduto può essere altrettanto educativo e di esempio per non replicare l’errore. Bene, veniamo ora al caso studio odierno: L’accaduto si svolge intorno alle 5.30 del mattino nel centro di Monza, due operai della ditta specializzata nel ritiro urbano dei rifiuti stavano svolgendo il loro turno con un automezzo compattatore di recente acquisto. I due, giusto per la cronaca stavano svolgendo il ritiro di rifiuto plastico considerando che in una città come Monza si svolge regolarmente la raccolta differenziata ormai da anni. Sì, ma cosa è successo? I due dopo svariate soste tra i condomini giungono di fronte ad un’azienda dove vi è un cassonetto da mille litri colmo di materiale di scarto. Un lavoratore aggancia al dispositivo “alza-volta contenitori”, posto anteriormente al compattatore, il bidone. Aziona la leva e durante il ribaltamento nella bocca di carico, questo si sgancia e cade a terra. Il cassonetto ormai vuoto, essendo di materiale plastico rimbalza sul suolo ed il coperchio si apre colpendo violentemente il lavoratore. L’infortunato molto sfortunato si era tenuto a distanza di sicurezza come da procedura, ma ciò non gli risparmiato una frattura scomposta alle ossa nasali e varie ferite e traumi all’intero volto. Il collega prontamente contatta i soccorsi e dopo una mattinata in ospedale il lavoratore rimedia un paio di mesi di infortunio e sei punti INAIL di invalidità permanente. Perché è avvenuto l’infortunio? Purtroppo per il lavoratore, il meccanismo utilizzato per il ribaltamento dei cassonetti (marcata CE-norma specifica EN 1501-1:1998/A2:2009) nasce con un difetto costruttivo, ovvero, un vizio occulto di un’elettro-valvola oleodinamica inadeguata che presentava (occasionalmente) l’apertura indesiderata del dispositivo di sicurezza. Visto e considerato che è un difetto che si potrebbe definire a tutti gli effetti “di fabbrica”, l’azienda costruttrice avrebbe dovuto fare verifiche più approfondite circa la qualità del prodotto da loro progettato e costruito. Per quanto riguarda invece l’azienda di rifiuti sicuramente una comunicazione del malfunzionamento da parte del preposto agli organi direzionali avrebbe potuto evitare l’incidente, interrompendo l’utilizzo di tale mezzo e facendolo ipoteticamente controllare da parte dell’azienda costruttrice. In casi accidentali come questo è possibile fare prevenzione? Sebbene nel caso presentato sia presente un “vizio occulto” (è occulto quel difetto del quale non si aveva conoscenza al momento dell’acquisto, e che non fosse facilmente rilevabile con l’ordinaria diligenza) deve essere cura del datore di lavoro costruire un sistema organizzativo per cui possa venire a conoscenza di eventuali difetti intrinseci dell’attrezzatura che emergano in fase di utilizzo, considerando che non era la prima volta che succedeva, infatti come rilasciato dai dipendenti in un secondo momento, vi erano già stati altri casi, dove fortunatamente nessuno aveva subito danni. In merito a quanto appena descritto, è bene valutare, se non presenti implementare, procedure interne di segnalazione di incidenti e malfunzionamenti. Questi possono validamente supportare una valutazione dei rischi dinamica ed in linea con l’art. 29, comma 3, D.lgs. n. 81 del 2008 (aggiornamento valutazione dei rischi). Ultimo ma non meno importante, i costruttori di attrezzature dispongono sovente di un sistema di segnalazione anomalie, poiché sono spesso i primi interessati a ricevere informazioni di eventuali difetti dei loro prodotti in quanto l’ordinamento giuridico li destina di una specifica posizione di garanzia; quindi, dopo un primo malfunzionamento perché non si sono fatti sentire? Purtroppo, a questa domanda nessuno è in grado di rispondere. A differenza della sicura immissione sul mercato di un prodotto malfunzionante. Questo rispetto agli altri un caso studio decisamente più leggero e con sviste meno gravi rispetto ai casi precedentemente trattati che trovi nella sezione blog del nostro sito. Ho deciso di riportartelo per un semplicemente perché nella posizione del ragazzo infortunato ci poteva essere chiunque, anche la persona più scrupolosa di questo mondo. Il lavoratore aveva seguito tutte le disposizioni alla lettera, eppure ha riportato un infortunio sul lavoro. La sicurezza sul lavoro non è opera di un singolo elemento, ma deve essere un meccanismo ben rodato e consolidato all’interno delle aziende dal primo all’ultimo dipendente, dal costruttore al fruitore, nessuno escluso. Spero come sempre di essere stato abbastanza esaustivo e che la vicenda sia stata ben analizzata in tutte le sue parti, senza lasciare spazio a dubbi. Se così non fosse, commenta qui sotto o scrivici, saremo più che lieti di approfondire la vicenda. Colgo l’occasione per augurarti un buon proseguo di giornata. Alla prossima!

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